mercoledì 9 settembre 2009

Trekking in Helambu - 5

4-2-08
Questo sarebbe dovuto essere l’ultimo giorno di trekking, secondo il mio programma: dovevo ripartire per la lunga discesa (un dislivello di 1700 metri) fino a Malemchipul Bazaar da dove prendere il bus per Kathmandu l’indomani. Ma questa mattina c’è un gran bel sole, questa famiglia mi piace e di tornare subito nel caos e nell’inquinamento di Kathmandu non ho molta voglia. Per cui ho deciso di fermarmi qui ancora qualche giorno fino al Losar che festeggerò così con questa famiglia ed i loro parenti che dovrebbero arrivare, anziché giracchiare per Boudhanath (il quartiere buddhista-tibetano di Kathmandu) come avevo pensato.
Così ora me ne sto qui a godermi il sole sullo spiazzo della casa e scrivo i ricordi di questi ultimi giorni prima che se ne volino via come le preghiere scritte sulle bandierine lungta che svolazzano qui intono.

Dopo alcune ore a scrivere al sole vado a fare una passeggiata. Prima al gompa, l’unico aperto dei quattro del villaggio. Il portone è accostato, ma un vecchio mi fa cenno di entrare, guardo e fotografo un po’ le immagini degli yidam (“divinità” tibetane) poi entra una vecchietta che sembra portare su di sé tutta la storia di questo villaggio e mi indica con sorridente decisione la cassetta delle offerte alla quale aggiungo il mio contributo.
Poi contino a camminare per un po’ fino a una grande statua dorata del Guru Rimpoche a pochi chilometri dal villaggio e ritorno.
Un paio d’ore di silenzio e profili di montagne al tramonto.

La sera ceno con la famiglia e mi dicono che la grande statua è stata portata lì in elicottero molto di recente grazie alle offerte di fedeli giapponesi e deve ancora essere inaugurata da un lama del villaggio sottostante che adesso vive in America e non si sa bene quando torna.
Mi raccontano anche altre storie interessanti, come quella del turista che è rimasto 43 giorni perso nella neve in una grotta presso Gosainkundh ed e’ stato poi ritrovato dai suoi parenti che lo cercavano in elicottero con una guida tamang e come poi questa guida che aveva ottenuto come ringraziamento un invito ad andare in Australia abbia avuto paura e rinunciato all’ultimo momento al punto di salire in aereo per un paese così sconosciuto.
Ed ancora del disastro aereo di un aerobus della Thai schiantatosi anni fa su queste montagne e di come le guardie parco ed i militari, i soli autorizzati a fare le ricerche, si siano dedicati soprattutto a trovare oro e dollari fra i resti bruciati di ciò che rimaneva dei passeggeri; con pochi risultati sembra, tranne per qualcuno che poi non si è più rivisto al lavoro.

5-2-08
La giornata, almeno fino a metà, procede con lettura al sole, a parte una chiacchierata col signor Kanchha Lama, il padrone di casa, mentre cuoce le babar, frittelle di riso per il Losar quando dovrebbero arrivare numerosi parenti in visita.
Più tardi, sempre con Kanchha Lama, andiamo da una famiglia di contadini qui vicino a cercare se hanno del miele delle loro api selvatiche o semiselvatiche, cosa che cerco sempre nei miei viaggi essendo nel miele un po’ dell’essenza di un luogo.
Mentre usciamo di casa c’è un uomo anziano del villaggio che è un’ora che sbraita e che sbraitava pure due giorni fa quando sono arrivato perché non ho scelto il suo lodge; sembra essere ubriaco o fuori di testa. Il mio ospite mi racconta che il vecchio era un bravissimo artista come non ce n’era nessun altro in questa zona: tutte le statue o i dipinti dei gompa qui intorno sono opera sua ed era anche un ottimo pittore di tangkhas (immagini sacre). Aveva un negozio a Kathmandu, ma il figlio andava sempre in giro a divertirsi e a spendere tutti i soldi finché un giorno non si è ammazzato in un incidente con la moto. Un altro figlio è emigrato negli USA, ma non gli manda mai un soldo. Così lui non ha retto a questi colpi, deve aver avuto una specie di esaurimento ed ha cominciato a bere parecchio: praticamente da una certa ora in poi è sempre lì che sbraita contro chiunque passa.
La famiglia da cui siamo andati è piuttosto povera, la vecchia è molto “etnica”, con collane ed anelli vari addosso, scalza come suo marito che sembra uno hobbit e che arriva poco dopo dalla foresta con un cappello rosso da puffo ed un bel sorriso mentre riporta a casa i suoi tre bufali.
Hanno costruito la casa nuova, di pietre e tetto in lamiera ondulata, con i soldi che il figlio ha fatto andando a lavorare in Ladakh (India) facendo il portatore in montagna per l’esercito indiano.
Non hanno miele in questa stagione, ma mi fanno vedere le arnie: sono pezzi di tronco d’albero (forse quelli stessi dove già si trovava l’alveare selvatico) inseriti nel muro di una costruzione che fa da stalla per le capre; da alcuni fori nella parete si vedono le api che vanno e vengono.
Hanno recentemente acquistato un centinaio di capre da commercianti indiani, ma sembra che abbiano preso una grossa fregatura purtroppo: le capre hanno una malattia agli occhi e piano piano diventano cieche; ne son già morte più di sessanta che, a quattromila rupie (circa 45 euro) l’una, da queste parti – e per una famiglia come questa – non è per niente poco.
Per il resto coltivano essenzialmente patate, oltre a qualche ortaggio e un po’ di frutta per sé. Qui è troppo alto per il riso ed anche per l’orzo, questi li comprano dalla pianura ed hanno un mulino a pietra che gira su un corso d’acqua per macinarli.
Salutata la famiglia, andiamo più avanti, al villaggio di Chumik, a trovar dei parenti di Kanchha Lama.
Come sempre la donna di casa ci prepara subito del té sulla stufa a legna. Io li ascolto un po’ chiacchierare nella loro lingua, che nel frattempo ho imparato non essere lo Sherpa dato che loro, pur passando nelle guide sotto questo nome, in realtà non sono sherpa. Per me è stato una specie di colpo di scena: gli Sherpa sono gli abitanti del Solu Khumbu mentre loro, gli abitanti dell’Helambu,- sebbene siano chiamati erroneamente Sherpa sulle guide - sono Hyolmo, detti Lama dai Nepalesi. Loro, come tutti gli abitanti dei villaggi precedenti che finora ho creduto Sherpa!
A me sembrano più o meno tutti tibetani, come per loro Italiani, Inglesi, Greci e Norvegesi siamo tutti europei (e anche per gli Americani, gli Australiani, i Neozelandesi non fanno differenza), ma, con un po’ di frequentazione, alcune sfumature di differenza diventano più chiare. Qui, rispetto agli Sherpa del Khumbu, sono un poco più “nepalizzati”, sia nei tratti somatici che negli abiti che nel cibo ed infatti il Khumbu è una zona di più recente, ancorché secolare, immigrazione dal Tibet, ed anche la lingua, pur simile, è diversa.
Comunque, per me è parimenti incomprensibile, sicché, mentre loro parlano, e sorseggiando il té, mi concentro sulla bellissima credenza antica in legno scuro intarsiata con dragoni ed altri simboli tibetani, grande da prendere un’intera parete dell’ampia cucina.
Kanchha Lama nota la mia attenzione e ne parliamo un po’: son mobili che non si fanno più, quel tipo di legno non si può più tagliare qui all’interno del Parco Nazionale del Langtang e comunque non ci sono più artigiani che fanno queste opere. Così una coppia giovane che mette su casa non ne trova da acquistare una nuova. Ma probabilmente neanche vorrebbe dato che anche qui, come da noi negli anni ’60, i giovani delle campagne desiderano le cose moderne per le loro nuove abitazioni.
Ed anche qui, approfittando dell’ignoranza, dell’abbaglio dei prodotti consumistici e della poca autostima per le proprie radici culturali, sono già arrivati furbi commercianti d’antiquariato, spesso anche occidentali, che vengono a “liberare” le famiglie originarie dei villaggi da queste “cose vecchie” pagandogliele ciò che a loro sembra un buon affare (tipo 100-200 euro) ed ottenendo delle vere opere d’arte che in Europa frutteranno come minimo 10-15.000 euro l’una.
Ovviamente non perdo l’occasione di farglielo notare: che col valore di uno di questi mobili in Occidente qui loro ci si potrebbero comprare una bella casa.


6-2-08
La notte è stata difficile: degli uccelli notturni? Ma no, più probabilmente dei topi; si sono infilati sotto il tetto di lamiera della mia stanza ed hanno ingaggiato una serie di scorribande, battaglie, vicende varie tra di loro con tanto di squittii e colpi tra la lamiera sopra ed il mio soffitto sotto che praticamente mi hanno reso impossibile dormire. Per fortuna il pannello di bambù che separa la stanza dal tetto era fissato sufficientemente bene da impedirgli di passare…. o forse erano loro che non erano interessati.
Verso le cinque di mattina il trambusto è finito, ma non rimaneva più molto da dormire.

Durante la mattinata ho portato le batterie della macchina fotografica a caricare al villaggio vicino, Chumik, ultimo punto finora dove arriva la linea elettrica. Una mezz’ora a piedi. Mi ha accompagnato Karma, il figlio di mr. Kanchha Lama.
Sta seguendo un corso di base per usare il computer a Kathmandu e vorrebbe aprire un internet point a Boudha dove ce ne sono ancora pochi a differenza del quartiere iperturistico di Thamel.
Vorrebbe fare qualcosa nel e per il suo paese, dice, ma il padre in questo non lo aiuta: preferisce che lui vada a cercar lavoro all’estero in qualche paese più ricco, come hanno fatto le sorelle in Israele e molti da queste parti - che mandano pure un po’ di soldi a casa.
Lasciamo batterie e caricatore ad una famiglia che ha la luce, almeno quando tornerà, perché in questo momento non c’è corrente – non mi sorprende: anche a Kathmandu non c’è per molte ore al giorno.

Nel pomeriggio una lunga passeggiata oltre il passo sopra il villaggio per vedere le montagne dall’altra parte.
In effetti per vederle mi accorgo di dover superare ancora un’altra sella di monte a cui però il sentiero, che scende ad un altro villaggio, non conduce.
Lo percorro lo stesso sperando in una diramazione laterale, un sentiero secondario, che poi infatti trovo e che mi regala, una volta percorso fino in cima, la splendida vista che cercavo.

La sera, al ritorno, ritrovo la famiglia che mi ospita, tutta intenta a preparare quelli che ricordano, come corrispettivo, i nostri addobbi di Natale. Solo che qui le persone sembrano conoscere ancora il significato simbolico di ogni oggetto e dell’esatto modo di predisporlo, o almeno lo conosce il capofamiglia al quale tutti fanno riferimento per sapere come e dove devono mettere ogni cosa.
C’è la lancia coperta di kata (sciarpe bianche di buon augurio), le ciotole con frutta, acqua e riso offerte alle varie manifestazioni dei Buddha e Bodhisattva, il piatto con i dolci per invitare al banchetto anche le anime dei parenti scomparsi. E incenso e burro di yak (“il più puro!”) a profusione.
Tutta la famiglia è impegnata da giorni a preparare cibi e piccoli allestimenti secondo la tradizione: c’è qualcosa di un “Natale in casa Cupiello” in stile tibetano, ma sembra senza drammi e retroscena… sarà forse perché già nell’iconografia tantrica il bene e il male sono complementari e non contrapposti?

Ad ogni modo, i topi questa notte sembrano aver trovato di meglio da fare, o perlomeno… altrove.


7-2-08
La mattina seguente l’atmosfera che ricorda l’opera di De Filippo continua nello stesso modo: i figli vanno a prendere la benedizione dal padre, che gli appiccica un pezzetto di burro di yak sopra la fronte.
Questa volta per colazione non ordino io quello che voglio, ma mi viene offerta quella che mangiano anche loro, speciale per il Losar.
Ne sono contento solo fino ad un certo punto a dire il vero perché, sì, i dolci simili alle frappe sono buoni e un mandarino era un po’ che non lo mangiavo, ma il curry di patate speziate con carne di capra e con le frittelle insapori di farina di riso non lo trovo proprio il massimo appena alzato ed anche l’interminabile serie di tazze di “tè” salato col burro – serie che non terminerà fino a sera inoltrata – onestamente è stata una di quelle cose che uno accetta giusto per cortesia – peraltro più che dovuta data la loro grandissima ospitalità.

Dopo un po’ torno al villaggio vicino per recuperare le batterie, ma quando arrivo lì mi dicono che purtroppo la corrente è tornata, da ieri mattina, solo per un’ora, da cui deduco che per le foto di oggi avrò solo ciò che rimane delle ultime due batterie ancora un po’ cariche ( - …e per fortuna poi basterà).
Tra l’altro in questo villaggio oggi c’è un’atmosfera non molto allegra : la notte scorsa è morta una donna anziana in una casa qui sotto e domani, più che il Losar, sarà celebrato il suo funerale.



Quando ritorno a casa trovo la famiglia, con alcuni parenti sopraggiunti, intorno al lama – anche questo in borghese – che sta svolgendo una breve cerimonia per benedire i lungta nuovi che sono stati issati ieri. Poi si beve e si mangia qualcosa e si va insieme al lama a trovare altre famiglie dove la stessa cerimonia viene ripetuta insieme all’intrattenersi un po’ in chiacchiere, tè salato al burro, dolcetti tipo frappe e raksi.
Dopo un po’ Kanchha Lama torna a casa, ma mi consiglia di unirmi ad un gruppo di festeggianti più giù nel villaggio, che in effetti sembrano divertirsi parecchio passando di casa in casa dove suonano, ballano e consumano le stesse libagioni, ma in maniera più abbondante mentre un lama, questa volta con i vestiti da monaco, benedice bandiere e persone.
Mi consiglia di andarci: lì i festeggiamenti sono più vivaci. Lui non verrà.
Il villaggio è diviso in gruppi per quanto riguarda le celebrazioni del Losar, ma non è tanto quello: ci deve essere qualche persona che lui non vuole incontrare in quel gruppo.
Comunque sia io mi avvicino e subito un uomo anziano con una barbetta da Lao Tze mi invita ad unirmi ai festeggiamenti. La musica, suonata col tamgnin, la chitarretta che anche io ho comprato a Kutumsang, è minima e la danza, tutti insieme in cerchio, un passo avanti ed uno indietro tenendosi per la vita, è al ritmo ripetitivo del canto. Un canto in Hyolmo antico, le cui parole sono di significato incomprensibile a loro stessi.
Naturalmente ben presto, in qualità di ospite straniero, divento oggetto dell’attenzione di diverse persone, particolarmente dei giovani del gruppo e del vecchio con la barbetta che non parla Inglese e continua a presentarmi i suoi nipotini e il figlio.
I giovani sono qui, come i figli di Kanchha Lama, venuti per il Losar da Kathmandu dove studiano. Particolarmente dal quartiere del grande stupa di Boudhanath dove risiede la maggior parte degli immigrati di religione buddhista nella capitale. Sono studenti, chi di hotel management, chi di pittura di tangkha.
Il figlio del vecchio Dawa Lama invece e’ un uomo adulto, un pittore ed insegnante di pittura sacra buddhista sia nello stile tibetano che giapponese (ha praticato anche in Giappone e in Malaysia) e di sculture sacre. Sono stili per cui ci vuole una lunga preparazione, non solo per conoscere le tecniche, ma anche tutti i complicati dettagli simbolici dell’iconografia tantrica: in effetti, di tuti i mille particolari che sono in una tangkha, l’autore non può inventare pressoché nulla.
Anche lui vive a Boudha dove ha parecchio lavoro nei numerosi gompa della zona, particolarmente in quello della comunità hyolmo (ogni gruppo etnico ha il suo) dove mi invita ad andarlo a trovare una volta tornati entrambi a Kathmandu.
Mi dice che ancora dieci-quindici anni fa per il Losar il villaggio era pieno di gente: molti ancora abitavano qui e quelli che erano andati a vivere in città comunque non mancavano di tornare per l’occasione, ed era una grande festa.









Oggi neanche l’emigrazione a Kathmandu sembra più bastare, molta gente è andata a trovar lavoro all’estero e al villaggio son rimasti solo i vecchi e solo pochi delle nuove generazioni vengono su a trovarli per la ricorrenza.
Gli dico che è probabilmente un passaggio inevitabile, che è successo ovunque. In effetti qui la vita è dura ed è comprensibile che qualcuno voglia cercare altrove il modo di cambiare la propria condizione. Ma spero anch’io, come lui, che prima o poi la gente tornerà: del resto, anche se in contesti molto diversi, anche da noi a volte i pronipoti degli ex-contadini son tornati a vivere in una campagna ormai a loro estranea allontanandosi dalla città, una volta che determinati servizi di base erano diventati disponibili anche fuori.
In effetti, con alcune minime comodità in più (che a volte neanche dipendono solo dai soldi, ma pure dalla mentalità) non vedo proprio come si potrebbe preferire la vita in un cadente e inquinatissimo quartiere di Kathmandu a quella in una meraviglia di posto come questo.
Alla fine, con qualche litro di té al burro ed un certo numero di tazze di raksi caldo in corpo e dopo una breve visita alla casa di Dawa Lama e del suo figlio pittore, torno alla mia stanza, mentre gli ultimi due o tre reduci continuano in una danza barcollante intorno al lungta più alto tenendosi affettuosamente con le braccia dietro la vita, canticchiando, un passo avanti ed uno indietro, tenacemente.


8-2-08
Oggi e’ tempo di andar via, di prendere di nuovo la strada.


Io saluto dei nuovi amici e riparto
Dei bambini schiamazzano al turista
ma il piccolo uccello verde non si muove nel vedermi.
Chi è seduto a mungere una mucca
e chi a guardare il cielo.
Mentre una famiglia celebra un funerale
un po’ più giù.
Nuvole di passaggio
sui monti di Sermantang.


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A volte si cammina piano
a volte lesti.
Ma sempre, anche in discesa,
i pensieri corrono di piu’.



Praticamente scendo un dislivello di oltre 1500 metri in tre ore. Col peso dello zaino è proprio una gran fatica: lo sforzo che faccio per arrestare ad ogni passo la spinta verso il basso, che mi farebbe cadere, tende continuamente i nervi delle gambe che comincerebbero a tremare se non fosse lo stesso sforzo dell’autocontrollo a contenere i suoi effetti.
Dato che sono alla fine del trekking i miei istinti di ribellione contro le fatiche di queste due settimane trovano libero sfogo e mi vengono in mente una serie di battute sarcastiche e di invettive ironiche contro la popolazione locale che ha fatto i sentieri (che, considerandoli seriamente, sono invece un lavoro eroico portato avanti per generazioni) e che ha messo le varie pietre nel modo certo più opportuno, ma, sembra ora a me, nel modo più adatto a rendermi il cammino il più scomodo possibile ed atto a farmi scivolare ad ogni passo. Alcune battute sono anche divertenti e mi fanno procedere per un po’ con un mezzo sorrisetto sulle labbra mentre sto attento a non inciampare. E mi rammarico di non poterle annotare sia per non perder tempo sia perché tanto il contesto della girandola di pensieri, stati d’animo e sensazioni fisiche all’interno del quale hanno senso sarebbe impossibile da riprodurre in parole.

Comunque sia, alla fine arrivo giù a valle, al villaggio di Tembhu, veramente distrutto, quasi pronto ad auspicare il rasamento al suolo di qualechessia rilievo montuoso sulla faccia della Terra e l’abolizione della parola “trekking” dal vocabolario.
A Tembhu c’è la strada, e con lei il bus che viaggia fino a Kathmandu: un miracolo di tecnologia rispetto al mondo che ho vissuto finora su queste montagne. Solo che il bus, che due ragazzi stanno lavando con uno straccio e un secchio d’acqua verso il quale mi dirigo fiducioso e contento di essere finalmente su una superficie quasi regolare e relativamente orizzontale, non è destinato a partire: il bus che devo prendere arriverà fra due ore e mezza dalla capitale (se tutto va bene) per ripartire subito.
Va bene, ok, tutto piuttosto che camminare ancora. Aspetto le due ore e mezza, mi levo scarpe e calzini, immergo i piedi nel torrente da cui i ragazzi prendono l’acqua col secchio per gettarla sul bus a riposo, ma poco dopo li devo levare a causa di una sensazione di quasi congelamento. Poco dopo, mentre io mi sono messo a leggere e a sgranocchiare un po’ dei dolci tipo frappe del Losar che la famiglia di Sermantang mi ha dato da portar via, vedo uno dei due ragazzi del bus che si spoglia e si lava gettandosi addosso abbondanti secchiate della stessa acqua del torrente. Che dire? Ci sono cose a volte sulle quali anche i relativisti hanno le loro ragioni!

Una volta salito sull’autobus e che questo è partito un tipo attacca discorso e mi dice di essere stato tre anni in Malaysia a lavorare in una fabbrica di lampade da tavolo destinate all’esportazione verso il mercato francese. E fin qui un ulteriore segno della globalizzazione che si arrampica come un’edera fin sopra queste montagne... solo che prima di scendere mi informa che il viaggio verso Kathmandu non durerà quattro ore come pensavo, ma sei o sette, facendomi arrivare verso le nove di sera quando è quasi tutto chiuso e, detto questo, scende verso i fatti suoi e mi lascia alla strada che dire dissestata è farle un complimento immeritato e alla musica distorta e rimbombante dagli altoparlanti che sembrano fare la gioia e la consolazione di quel poveraccio dell’autista al quale auguro di non venire mai a sapere che esiste anche il servosterzo fino al giorno in cui non potrà anche lui servirsene sul suo lavoro.
Il paesaggio della campagna nepalese in compenso è stupendo, anche se non mancano neanche diverse scene che rasentano la vera miseria passando per i paesucoli che si incontrano lungo il percorso.
Durante il viaggio ad un certo punto salta fuori un telefonino dimenticato da un passeggero già sceso. Si scatena una accesa discussione tra un tizio che cerca di argomentare che il cellulare è suo ed altri seduti nei posti lì intorno che sanno che non è vero e glielo tolgono dalle mani. Uno di questi guarda la rubrica e telefona a qualche parente del proprietario e poi lo mette in comunicazione con l’autista perché si mettano d’accordo per recuperare il telefono.
Anche da noi sarebbe andata così?..... Chissà?!

Finalmente arrivo a Kathmandu, taxi, albergo, ristorante, la sera doccia – non veramente calda, ma assolutamente necessaria.
Di esser tornato nello stesso albergo a Thamel non sono molto contento, ma avevo lasciato qui il resto del bagaglio ed ora è troppo tardi per cercare altrove una stanza. Trovero’ un’alternativa nei prossimi giorni, magari vicino al grande stupa di Boudhanath.
Per ora e’ andata piu’ che bene!