mercoledì 9 settembre 2009

Note da un viaggio in Uttarakhand (India)

NOTE DA UN VIAGGIO IN UTTARAKHAND (INDIA)



HARIDWAR


Seduto sulla riva del Gange guardo i gradini del ghat che scendono verticali nel fiume.
Il fiume, però, scorre orizzontale.

Rappresentano un percorso graduale, in passi successivi, livelli in sequenza logico-gerarchica; il modo in cui l’uomo concepisce il proprio approccio, il proprio calarsi nella vera Realtà, il tentativo di penetrare la dimensione dell’eterno mutamento della Vita che è dentro la sacralità del fiume.
I gradini sono fermi e così restando vorrebbero entrare nell’acqua, nella sua dimensione.
Ma il fiume è sacro perchè non è mai lo stesso in cui ci siamo già immersi. Non lo si può raggiungere.
L’acqua scorre in orizzontale, senza fine. E non contiene i gradini. Semplicemente, gli scorre sopra.
L’acqua è acqua: fluisce secondo le circostanze, scorre senza sosta, adattandosi alle forme contingenti del terreno, così com’è.
Non è che movimento, mutamento, cambiamento, non ha scopo nè disegno.
Per questo i gradini le rimangono comunque estranei.
Si muove su un altro piano.

Intanto, su barchette di foglie di banano, con fiori e un po’ di riso, corrono sui flutti le fiammele offerte dai fedeli.
Scorrono insieme al fiume.


Vado di sera alla cerimonia quotidiana del Ganga Aarti. Tutti i giorni, alle 19.00, qui ad Haridwar, una gran folla si raduna lungo i ghat che scendono al Gange per offrire fuoco alla Madre Ganga, dea d’acqua. Ogni sera un’ovazione si alza rivolta agli dèi; un’ovazione quasi da stadio e mille fuochi e piccole fiammelle, che vanno a galleggiare sul fiume.

Momento di buoni guadagni per i bramini, che vendono promesse di aldilà, e anche solo per i venditori di incensi e fiori, in questo grande business religioso che credo abbia una grossa rilevanza nel PIL indiano.
Se c’è un paese in cui si tocca con mano quanto la religione sia “l’oppio dei popoli”, questo è certamente l’India.
Un modo per dimenticare le difficoltà della vita, la povertà. Sì, anche, ma non è solo questo, non sono certo tutti poveri in India. C’è da un lato l’irrazionalità di affidare tutto il rapporto col “divino” all’emozionalità, al sentimento, come si trattasse di un amante – e forse ne è anche un po’ un sostituto, data la comunicazione tra i sessi molto controllata secondo la tradizione - e dall’altro, nel vedere la vita sempre alla luce di qualcosa che ne va al di là, la capacità di amarla in ogni sua forma – perciò sacralizzata – al di là di come e cosa sia, una capacità che sorge direttamente dalla fondamentale tranquillità di quei gran “caciaroni” che sono gli Indiani (“always a bit louder than loud” come dice la star bollywoodiana Shah Rukh Khan).

E poi…… e poi ci sono certamente mille altre componenti e mille altri modi di vederla, dato che in India si può trovare tutto e il contrario di tutto: non la si comprende mai fino in fondo…. Anzi, forse sta proprio lì apposta: per mostrarci che non possiamo comprendere tutto.
Nemmeno gli Indiani, credo, riescano a comprenderla; ma per loro questo non sarà certo un problema: solo - come ogni altra cosa, del resto - un dato di fatto.



SEED SAVERS INDIANI: VANDANA SHIVA E NAVDANYA

Nella campagna vicino Dehra Dun, la capitale dell’Uttarakhand, c’è Bija Vidyapeeth, l’ “Università dei Semi”, il centro di Navdanya, l’organizzazione fondata da Vandana Shiva in cui vengono coltivate e conservate le sementi di numerosissime varietà tradizionali di cereali, ortaggi, legumi, piante officinali da sempre patrimonio dei villaggi indiani.

Un posto tranquillo e ben curato che contiene, oltre alla banca dei semi, ai campi, ai laboratori di analisi del terreno, anche una biblioteca ed un centro multimediale con stanze semplici, servizi ed una mensa per ospitare i frequenti visitatori e volontari che lo rendono un crocevia internazionale di persone attivamente interessate all’agricoltura biologica ed alla difesa della biodiversità. L’atmosfera che vi si respira fa molto presto sentire a casa, una casa precedentemente sconosciuta alla quale sembra essere tornati, forse perchè ci si occupa qui di cose basilari, comuni a tutti noi umani, tanto mentre diamo una mano a falciare i piccoli appezzamenti con le varietà di basmati o di amaranto quanto mentre continuiamo a chiacchierare con gente di tutto il mondo a mensa, mentre ci laviamo il nostro piatto dopo mangiato.
Non saprei, in realtà, quanto l’apporto dei volontari sia determinante per i lavori del centro, ma è chiaro che questo è pensato con grande attenzione a loro, credo con la consapevolezza che i giorni passati qui non mancheranno di lasciare il segno nella vita dei molti che vi passano e di avere ripercussioni nelle loro scelte e quindi nel mondo in un modo o nell’altro – per strade forse anche silenziose o indecifrabili, ma molto concrete e reali.

Navdanya (www.navdanya.org) è una organizzazione che sa parlare e lavorare altrettanto bene al contadino analfabeta come al funzionario statale o della ong, all’intellettuale, al politico, allo scienziato, alle istituzioni internazionali e delle Nazioni Unite. È al lavoro di Vandana Shiva, insieme ad altre persone, che si deve la vittoriosa battaglia legale che ha fermato il tentativo piratesco delle corporations agro-chimico-genetiche di mettere un brevetto sul riso basmati e sull’albero del neem, usato dalla popolazione indiana da tempo immemorabile per una quantità di applicazioni, tra le quali cui come ottimo antiparassitario naturale per frutta ed ortaggi.
Tra gli aspetti importanti del lavoro di Navdanya c’è che permette ai contadini – grazie anche ad altre organizzazioni come Slow Food ed alla sua biennale manifestazione torinese “Terra Madre” (www.terramadre2008.org) – non solo di entrare in contatto con altre realtà del mondo e di vedere quanto anche nei paesi ricchi i loro prodotti possano essere apprezzati e le tematiche che li riguardano considerate, ma, forse soprattutto, di incontrare altri contadini come loro. Questo è della massima importanza se pensiamo che uno dei più grandi punti di debolezza dei contadini è sempre stato il loro isolamento, non tanto dagli altri settori della società (dato che, alle strette, è l’unico settore che potrebbe anche fare a meno degli altri), ma tra loro stessi. I contadini (a parte differenze esteriori non sostanziali) fanno in tutti i posti del mondo la stessa vita, condividono analoghe esperienze e problemi: quelli del modo basilare della vita umana in tutto il mondo. Ma, a fronte di questo, vivono una condizione molto legata al luogo in cui si trovano, spesso senza occasione per tutta la vita di visitare neanche posti ben poco distanti dal loro villaggio. Di conseguenza – ed anche a causa di una certa propensione a diffidare di qualsiasi straniero dovuta appunto a questo isolamento - non avranno mai idea della forza che potenzialmente avrebbero se uniti vacessero valere il loro vero peso nel procedere della società, tale da bloccarla in tutto il mondo, nè della sostanziale unità dei meccanismi e degli interessi che stanno dietro ai drammi della loro condizione.

Centrale nell’attività di Navdanya (che significa “nove semi” o anche “nuovi semi”) è il mantenimento delle varietà tradizionali delle sementi usate dai contadini indiani e della loro biodiversità. Ciò che loro dicono esplicitamente è che non ci può essere indipendenza dei contadini se questi non producono da sè i propri semi. Di qui il rifiuto netto dei brevetti sulla vita, degli ogm e delle varietà ibride selezionate industrialmente e sterili o incapaci di riprodursi come cultivar specifico. Di qui la cura nel mantenere la biodiversità, nell’ampliarla e nel migliorarla (come del resto si è fatto da sempre, pur se in modo meno sistematico o scientifico) per avere più possibilità di adattamento delle coltivazioni ad una molteplicità di circostanze possibili, date sia dai diversi contesti geografici che dai cambiamenti climatici che vediamo manifestarsi con crescente evidenza.
Parlando della storia recente dell’agricoltura in India col dott. Vinod Bhatt, che dirige il centro, egli ha descritto il passaggio, che avvenne al tempo della colonia britannica, da una situazione di una moltitudine di piccoli appezzamenti in possesso di famiglie (più o meno allargate) all’emergere del latifondo in mano agli zamindar, grandi proprietari terrieri favoriti a questo scopo dagli Inglesi. Questi proprietari, legati al mondo dell’agricoltura, ma non contadini, reorientarono questo stesso mondo in direzione del mercato, in senso prioritario e non più solo per le eccedenze. Essendo dunque la vendita lo scopo principale della produzione, questa doveva occuparsi di ciò che era vendibile e rivolgersi a dove e cosa era vendibile. Ovviamente i prodotti potevano essere venduti dove c’erano i soldi per comprarli, ovvero nella “madrepatria” britannica e dunque cotone, indaco, tè, caffè e cose simili che si possono commerciare, sì, ma che non sono più il cibo di cui vivere. Ecco dunque il contadino che smette di essere tale: non produce più in primo luogo per mangiare e secondariamente per vendere le eccedenze e comprare così ciò che non può produrre, ma diventa un produttore di merci, un operaio agricolo (anche quando lavora in proprio) eterodiretto e/o eteroindirizzato. Ecco dunque l’inizio della perdita, insieme al cibo, della biodiversità, delle conoscenze e delle tecniche tradizionali, dell’indipendenza Ecco l’inizio di molti cambiamenti nella vita di tutti i giorni, fino in dettagli apparentemente irrilevanti, ma invece molto significativi. Ad esempio, l’uso oggi comune in India - anche al di fuori delle aree semidesertiche dove era inevitabile - di usare letame secco come combustibile, si diffuse quando la corona inglese vietò alla popolazione – come secoli prima aveva fatto in patria dando inizio all’esodo rurale verso le città – l’uso comune delle foreste. Questo trasformò il letame in risorsa combustibile privando i contadini del fertilizzante naturale e gratuito che avevano sempre avuto a disposizione. La prima fabbrica di concimi chimici in India iniziò a produrre già nel 1904, ma il loro uso rimase molto limitato ancora fino all’indipendenza quando a Jawahrlal Nehru venne in mente – con buona pace del progetto di nazione al quale Gandhi aveva dedicato la vita - che l’India doveva trasformarsi in una nazione industrializzata, dunque che, per un paese di contadini, la via da intraprendere era quella dell’industria pesante e della “Green Revolution” in agricoltura (chimica e macchine a go-go). Quando, al tempo della colonia, l’agronomo Sir Albert Howard fu mandato ad insegnare le tecniche agricole occidentali agli Indiani, questo ritornò scrivendo libri (“I diritti della terra” – Slow Food Editore) in cui illustrava in dettaglio le tecniche autoctone concludendo che gli Inglesi avevano più da imparare che da insegnare nei confronti dei contadini che avevano colonizzato. In India si coltivavano allora circa 200.000 varietà diverse di riso. Oggi ne esistono ancora due o tre migliaia, ma quelle che di fatto si trovano comunemente nei mercati sono solo una decina. Un ettaro produceva una cinquantina di quintali di riso contro i dodici di oggi. Dall’adozione della “Rivoluzione Verde” in poi l’uso di pesticidi e insetticidi è andato sempre aumentando insieme all’incidenza di malattie e parassiti. L’India era una volta autosufficiente quanto a riso e spezie ed oggi è costretta ad importarne. In compenso è attualmente il quarto produttore mondiale di concimi chimici (qualcosa converrà pure prodursi da sè). Oltre alla massiccia sponsorizzazione sia da parte statale che privata (e soprattutto da entrambe congiuntamente essendoci stati con ogni probabilità accordi tra USA e governo indiano che condizionavano la fornitura di aiuti economici all’adozione dei programmi di “modernizzazione” agricola – del resto, “se non volete imparare come produrre di più vuol dire che non volete mangiare…e allora, perchè dovremmo aiutarvi?”) la rapida accettazione dei prodotti chimici in agricoltura è stata certamente accettata a causa degli spettacolari risultati nel breve periodo: i contadini hanno visto crescere raccolti eccezionali con sforzo molto minore….magari, accompagnando la cosa con omaggi di quantità iniziali per test gratuiti, e il gioco è fatto. La questione vera è che l’impoverimento progressivo e la conseguente erosione del suolo, l’aumento di parassiti e malattie, la dipendenza crescente da macchinari, carburanti, prodotti di sintesi, veleni, sementi selezionate e sterili, fino alle ultime novità geneticamente modificate, hanno portato in venti-trent’anni molti contadini a ritrovarsi una terra che non produce più se non ‘drogata” costantemente di sostanze chimiche sempre meno efficaci e sempre più indispensabili, costose e non tali da consentire risultati che vadano a compensare le spese. Negli ultimi anni oltre 250.000 contadini indiani si sono suicidati non potendo più pagare i debiti nè mantenere la famiglia. Allo stesso tempo sui muri di molte case nei paesi di campagna c’è chi ha accettato di verniciare la pubblicità del RoundUp e delle sementi RoundUp Ready: sementi che non si riproducono e che necessitano di tutta la linea di fertilizzanti ed antiparassitari per poter crescere….un ciclo completo (non so se comprende anche un buono per le pompe funebri in caso di suicidio).

Il lavoro di Navdanya, che ha un successo notevole laddove le sue forze le permettono di arrivare, è dunque chiaramente della massima importanza e va sostenuto. Ma non possiamo non vedere ciò che può dire anche a noi che ci riguarda: il gap tra l’effetto spettacolare immediato e l’impoverimento e la situazione di pericolo complessivi successivi è qualcosa che riguarda tutta la nostra realtà, da noi in modo forse meno percepibile che nel caso dei contadini indiani, ma anche in modo più pervasivo e sottile riguardando un po’ tutto il sottofondo della nostra situazione. Se in India l’agricoltura biologica ed autogestita dai villaggi è la base per riappropriarsi di una economia autocentrata e sostenibile materialmente, da noi una agricoltura biologica e neo-contadina può essere una via di salvezza per riappropriarci della nostra vita nel suo complesso, dei suoi ritmi, del suo senso, del nostro riconoscerci in essa e nella sua direzione. In entrambi i casi si deve ripartire da una visione della dimensione (neo)contadina complessiva e non come meri produttori di cibo (come fosse un mestiere come un altro). In un contesto come quello indiano si tratta in primo luogo di coltivare la possibilità di un lavoro e di cibo sano per la massa della popolazione. Nel contesto nostro si tratta, se così si può dire, di coltivare la nostra anima, il nostro spirito - o come lo vogliamo chiamare – attraverso la pratica. In entrambi i casi si tratta di salvare il pianeta.
Da un lato va tenuto ben presente che il passaggio (la distorsione) fondamentale è il momento in cui il contadino smette di essere, di essere considerato e di considerarsi un contadino a tutto tondo e diventa solo un produttore di cibo, della merce-cibo. Dall’altro c’è un punto che loro di Navdanya sottolineano – e sul quale si sofferma anche Carlo Petrini di Slow Food nel suo notevole “Buono, Pulito e Giusto” - cioè l’importanza del ruolo dell’acquirente, il consumatore, considerandolo una sorta di co-produttore, in quanto è colui che permette al contadino di continuare a produrre e fare la propria vita sapendo che potrà vendere i propri prodotti e così garantirsi quella parte di sostentamento che non riuscirebbe ad auto prodursi – ovvero rendendo possibile il fatto che questa rimanga solo una parte e quindi che anche chi produce molte delle cose che egli deve comprare possa essere produttore di queste solo in parte, ed autoproduttore (spesso, ma non solo, contadino a sua volta) per il resto.


LA DIGA DI TEHRI



Da Dehra Dun per andare verso le montagne a nord si passa per Tehri dove, alle popolazioni locali che hanno a lungo e duramente protestato contro il progetto, è stata imposta una diga di grandi proporzioni che ha comportato l’evaquazione di 100 villaggi più l’antica cittadina di Old Tehri, tutti ormai sommersi, insieme ai campi di cui vivevano i 130.000 abitanti ora sfollati di una delle valli più fertili dell’Himalaya. È un enorme sbarramento sul Baghirati, il tratto iniziale del Gange. Ora la diga, entrata in funzione da due anni, produce solo il 10% dell’energia elettrica preventivata e ci sono state già numerose frane che fanno fanno temere per la sua sicurezza. Comunque, anche quel po’ di elettricità che ne viene prodotta non è destinata alla gente di questa zona, dove continuano ad esserci turni quotidiani per chi deve restare al buio parte delle ventiquattr’ore.
L’energia va lontano. Al mondo delle fabbriche e delle grandi città (dove pure ci sono frequenti black out, dato che la produzione di elettricità non tiene il passo col galoppante ritmo dello sviluppo indiano).
Mi viene da pensare ad un altro mondo lontano, quello di casa nostra, dove spesso nascono movimenti di opposizione a discariche ed inceneritori, ponti e linee di alta velocità. Tutte cose sacrosante (queste proteste). Però, mi chiedo: si può risolvere la cosa limitandosi all’impedire la realizzazione di certe opere vicino al proprio giardino? Si prende mai davvero in considerazione il dato di fatto che, finchè immense quantità di rifiuti ci saranno, bisognerà pure eliminarli da qualche parte? Che se si vuole far girare l’economia a certi livelli ci vogliono pure determinate infrastrutture – che non sempre possono essere a impatto zero, tutt’altro? Che se si vuole consumare a certi ritmi ci vuole pure una certa produzione/consumo di energia, che non potrà essere pulita in misura sufficiente? Mi chiedo fino a che punto ci si renda conto, da noi, che se davvero non si vogliono opere inquinanti e pericolose, nè a casa propria nè altrui (pensiamo ad esempio allo smaltimento di scorie e rifiuti tossici), bisogna adottare ben altri stili di vita, ben altri modi e livelli di produzione/consumo. Non si scappa da questa realtà, altrimenti si tratta solo di passare a qualcun altro la patata bollente ovvero le conseguenze delle proprie pretese/libertà insostenibili. Magari a gente come i contadini di questa valle, ai quali non si può certo imputare la ben che minima corresponsabilità, che vivevano una vita davvero innocente da questo punto di vista, una vita che non è cambiata ora nel non avere l’elettricità che non avevano prima, ma che è cambiata molto per aver perso terra, casa, memorie e dèi locali rimasti sotto l’acqua insieme ai propri diritti calpestati dalla ricerca di profitti di qualche grande azienda pronta a “modernizzare” il paese.
Queste persone sfollate davvero non hanno coinvolgimenti di corresponsabilità, nemmeno in linea di principio, davvero sono le sole che potrebbero parlare. Ma la loro voce non viene ascoltata.

Mi vengono in mente i manifestini con la falce e martello che ho visto sulla parete di una casa, in questo periodo di elezioni indiane. Mi viene in mente quanto diceva ieri Vandana Shiva sulla grande espansione attuale del movimento naxalita (simil-maoista) in India: gruppi guerriglieri che tengono sotto controllo ampie zone del paese, soprattutto territori marginali, di foresta, di confine, territori tribali e contadini, impossibili da presidiare tutti da parte dell’esercito del governo centrale, e forse non così importanti dal loro punto di vista, ma il centro del mondo per i moltissimi delle minoranze etniche che avevano sentito sancito a parole il proprio diritto sulle proprie terre, ma che lo hanno visto calpestare da interessi di potenti sconosciuti e lontani.
La ripresa dei movimenti comunisti rivoluzionari nel subcontinente indiano (a partire dall’avvento al governo del partito maoista ex-guerrigliero in Nepal) può suonare – e può forse anche essere – la risposta un po’ “naif” di gente poco attrezzata per dialogare con la realtà contemporanea, l’ingenuità di dar credito a capetti locali, futuri dittatori. Ma se questa inadeguatezza c’è è anche perchè la non inclusività di questo sistema mondiale verso determinate popolazioni e modi di vita è un fatto reale e la delusione che sorge da tante chiacchiere sul progresso e la democrazia altrettanto. Il risultato è che ci son persone, su queste e su molte montagne del mondo, in molte foreste, in molti villaggi (un bel pezzo di umanità, se li andiamo a contare) che non ci sentono più, e non ci vogliono sentire.
A meno che non si tratti di chi dice un bel NO. Forse ottuso, forse semplicistico, forse foriero di ulteriori problemi….si, però un bel NO, chiaro e netto.
Una cosa a cui conviene prestare attenzione.





VERSO LE MONTAGNE

Insieme ad alcuni operatori di Navdanya una visita ad alcuni villaggi salendo verso le montagne dell’Uttarakhand.

Si coltiva amaranto, riso rosso, fagioli neri, lenticchie color arancio; c’è un tipo di zenzero che sa di mango, capre kashmire simili a quelle nostre girgentane (di Agrigento) – chissà per quali strade e quali storie saranno imparentate?
Ogni famiglia ha tradizionalmente il suo granaio, assurto ora alla dignità di “banca dei semi”, tesoro di identità e cultura, indipendenza e conoscenza da tramandare alle generazioni future.
Rimarrà così qualcosa da offrire agli ospiti – ma anche al mondo – di veramente tipico, frutto della terra e del lavoro di questi luoghi e proprio di questi. Qualcosa che non si potrà trovare fra le poche varietà di riso o legumi o verdure che il mercato globale rende disponibili su tutte le piazze, su tutti gli scaffali.

Resterà qualche alternativa per sfamarsi quando nuove malattie e mutate condizioni climatiche stermineranno le monocolture monopolistiche e superspecializzate. E ci saranno ancora sementi libere, anche se forse ormai clandestine (?) il giorno – se mai arriverà - che tutte le fonti di cibo saranno state privatizzate, quando ogni segmento di DNA avrà trovato il suo padrone e il suo escluso.

Per ora c’è solo maggiore biodiversità, maggiore autentica ricchezza su questa Terra, preservata in questi villaggi. Anche noi l’avevamo, anche noi l’abbiamo ancora, anche se pochi lo sanno: l’Italia abbonda di varietà locali tipiche, a volte solo di un particolare paesetto o di pochi ettari di terra.

Patate viola, pomodori tigrati, fagioli a pois, aglio rosa, biete arancioni e molti altri prodotti con caratteristiche meno “spettacolari”, ma tutte frutto della paziente selezione e della cura di generazioni di contadini, oggi in gran parte dimenticate a causa della fuga dalla terra e della standardizzazione delle produzioni. Fortunatamente non tutto questo è perduto grazie a chi, anche da noi, si adopera per salvare questa biodiversità, come Alberto Olivucci e la rete di Civiltà Contadina (www.civiltacontadina.it ).

La gente qui nei villaggi non ha nulla delle comodità moderne, ma neppure manca loro nulla di veramente necessario. Case di legno, robuste e dignitose.

Comunità piuttosto solide ed integrate (anche loro con i loro immigrati, stagionali dal Nepal e dallo stato indiano povero del Bihar). Alcune famiglie riescono anche a mandare i figli all’università a Dehra Dun. Molti di questi, una volta laureati, vorrebbero lavorare in zona, per il futuro delle proprie comunità, ma, se spesso devono seguire in città o nelle pianure industrializzate la propria carriera, ciò è dovuto in gran parte (anche) alla politica perseguita dal governo indiano che – come è stato anche qui da noi – non è certo quella di venire incontro a chi vive sulle montagne, bensì di lasciare che queste si spopolino e che sia la gente a venire giù, incontro allo sviluppo che avanza.

Le valli sono abbastanza omogenee culturalmente al loro interno e, grazie al lavoro di Navdanya, i villaggi di alcune di queste sono passati in blocco all’agricoltura bio – o hanno comunque scelto di rimanervi non avendo ancora mai adottato la chimica.

Lungo la stessa valle si condivide il culto dello stesso dio locale, diverso di valle in valle, ma perlopiù si tratta di varie incarnazioni di Shiva, dio riconosciuto e venerato in tutta l’Himalaya.
Dio della trasformazione infinita, della danza delle cose, Il bene e il male sono momenti diversi del suo gioco.
Shiva è toro e cobra, fumo denso del charas.
Incarnato in alberi e mucchi di pietre, adornati di tridenti e campane.
Evocato da asceti erranti forse autentici e forse falsi e a volte, umanamente, entrambe le cose.
Dio di foreste, e di montagne. Di vento, di crepacci e di valanghe.
Di grotte oscure e di ghiacciai abbaglianti.
Un dio di arcobaleni.



Non che queste cose siano simboli di Shiva. Anche, ma non son sue metafore: è Shiva che è dio in queste cose.
Anche un dio è un dato di fatto. O, forse piuttosto……viceversa.



TREKKING AL KEDAR KHANTA



Quando si va in trekking di solito rimango ben presto l’ultimo del gruppo.
È questo il bello del camminare in montagna: che ognuno non può che andare al proprio passo, così com’è.






Non si può seguire l’andamento altrui, si rovinerebbero le proprie preziose energie e poi non ce n’è motivo: prima o poi, tutti si arriva.









Mi piace gustare questo lusso. Il lusso della lentezza, del proprio ritmo, quale che sia, del sostenere la propria via, e la propria fatica, e pure andare avanti, pian piano.
Persino mi fermo a pensare quanto questa possibilità sia diventata preziosa oggi. E quanto si ribalterebbe la graduatoria dei ricchi e dei poveri di questo mondo, delle persone di successo o meno se a misurare la scala fosse quest’altro metro.








Mi guardo intorno nel bosco e gli alberi non hanno bisogno di dirmelo… quanto tempo ci hanno messo a crescere.