mercoledì 9 settembre 2009

Trekking in Helambu - 4

1-2-08
Rimango a Malemchigaon. C’è una celebrazione di tre giorni (oggi è l’ultimo) al gompa (tempio buddista tibetano) di commemorare e preghiera per un uomo in occasione di un anno dalla sua morte. Si usa celebrare dopo tre giorni, dopo sette, dopo quarantanove e dopo un anno. La famiglia offre cibo e bevande a fa fare puje (cerimonie) in continuazione per tre giorni. E’ una grande festa e dicono che succede in media una ventina di volte all’anno quindi abbondantemente più di una volta al mese.
L’uomo che viene ricordato oggi è morto in India. Molta gente di questo villaggio va in India per lavorare, chi a costruire case e qualcuno anche è proprietario di negozi in Ladakh.
Il lodge dove mi trovo appartiene ad un uomo senza figli (grande sventura da queste parti) che dice di essere l’attuale capo del villaggio, ma più tardi vengo a sapere che lo è solo secondo la fazione maoista mentre quello legittimo sarebbe un altro; situazioni che probabilmente si ripetono spesso in questo Nepal in attesa di elezioni che chissà se davvero arriveranno ad aprile come hanno promesso ed in fase di passaggio da monarchia a repubblica parlamentare.

Faccio un giro al gompa a vedere che succede e se posso fare qualche foto perché l’occasione è ghiotta.
Come mi affaccio alla porta del tempio mi invitano a sedermi con loro e dopo un po’ inizia la puja. Per tutti e tre i giorni ne fanno in continuazione, con qualche pausa in mezzo per chiacchierare, bere té salato al burro (il té tibetano) e chang o raksi (alcoolici locali).
Stranamente il lama che conduce le preghiere non ha i vestiti da monaco: infatti non lo è; è un lama laico, un “family lama”, come dicono e come sono tutti i lama di questi villaggi: hanno famiglia, bevono alcoolici e fanno tutto come gli altri. Questi villaggi sherpa seguono il lignaggio dei Niyngmapa, il più antico nel buddhismo tibetano, e in questa tradizione la condizione intermedia tra monaco e laico non è troppo strana.
La festa rimarrà per me una cosa difficile da dimenticare: grandi fuochi con enormi ceppi di legna portati a spalla fino allo spiazzo davanti al gompa, con un sacco di gente intorno, chi è seduto a chiacchierare o a mangiare, chi distribuisce riso da enormi pentoloni, chi gira a offrire té o chang e raksi.

E poi ci sono i momenti in cui tutti cantano e pregano sia fuori che dentro al gompa con questi lama che non si capisce quali sono e quali no. E infine la sera le danze intorno al fuoco cantando e senza musica tranne il tempo cadenzato da un tamburo.
Un semicerchio, un tratto di uomini ed uno di donne, che si tengono con le braccia dietro la vita e girano inorno facendo ogni tanto un passo avanti o uno indietro.
Quasi tutti parlano sufficientemente Inglese, specialmente insegnanti e studenti della scuola locale che ha anche un ostello per i villaggi dei ragazzi circostanti ed è sponsorizzata da una ONG inglese.

Durante il pomeriggio conosco l’insegnante-direttore della scuola: ha l’aspetto di una bella persona, intelligente e “di buona volonta’”. La sua è una storia interessante e, direi, edificante: era giovane e studiava per diventare ingegnere civile; una volta è passato per questo villaggio durante un trekking. A quel tempo qui non c’era nessuna scuola: in Nepal l’istruzione non è di fatto obbligatoria, né per i genitori di mandare i figli a scuola né, evidentemente, per il governo di fare le scuole per i cittadini, specie per quelli che vivono nei villaggi di montagna (infatti chiunque se lo può appena permettere manda i figli a scuole private).
La gente del villaggio (avranno capito il tipo, che era uno buono? Chissà....) gli ha chiesto di fermarsi e di insegnare ai propri ragazzi. Lui ci ha pensato un po’ su e si è detto “ perché non mettere radici qui , in questo bel villaggio, tra questa brava gente?”. E così è stato: ha dovuto affrontare un po’ di discussioni con i suoi genitori per abbandonare gli studi, ma ha seguito la sua decisione. Per i primi dodici-tredici anni gli abitanti del villaggio gli hanno garantito cibo e alloggio, ma lavorava senza stipendio, poi è arrivata l’ONG britannica e di seguito gli accordi con il governo e così ora c’è una bella scuola ben tenuta ed apparentemente ben funzionante, pubblica, con lui come direttore ed altri insegnanti a rotazione. Si è anche convertito al buddhismo, dalla sua origine hindu, si è sposato con una donna di qui ed ora ha una bella casa che è anche un lodge per i turisti di passaggio.

Dopo un po’ che le danze sono iniziate me ne vado a dormire: domani è di nuovo giornata di cammino ed anche le numerose tazze di raksi caldo invitano al sonno.
Da dentro al sacco a pelo li sento continuare a lungo, finché non mi addormento.


2-2-08
Da Malemchigaon si scende ripidamente (attenzione al ghiaccio!) per un po’, fino al ponte sospeso sul fiume dove trovo un vecchio col pugnale kukhuri alla cintola che mi fa capire che è di Malemchigaon e torna su al villaggio, si lamenta un po’ dell’instabilità del ponte e mi saluta stringendomi calorosamente le mani. La gente da queste parti è semplicemente troppo brava!
Durante tutto il percorso ho sempre trovato qualcuno subito pronto a darmi preziose indicazioni sul sentiero da seguire, perfino prima che gliele chiedessi o chiamandomi da lontano per correggere la mia direzione indovinando la mia destinazione – del resto nella stagione alta qui di turisti ne passano tanti e fanno tutti lo stesso percorso.
Ma la persona che ricordo forse con più piacere l’ho incontrata durante questa salita di oggi su dal ponte verso Tarkegyang.
Ad un certo punto, dalle parti del villaggio di Dozum non sapevo più bene da che parte andare, il sentiero non si vedeva più; ho visto una casa lì vicino e mi sono avvicinato, ma apparentemente non c’era nessuno, poi sento una voce che mi chiama da un po’ più in su e vedo una donna né giovane né anziana che sta mungendo una bufala. Mi chiede se sono da solo (la prima cosa che tutti mi hanno chiesto sempre stupiti in tutti questi viaggi nelle zone di cultura indiana, insieme a “what is your name?” e “where are you from?”) e poi mi dice se voglio bere un té.. Mi fa una bella impressione: è proprio l’immagine della contadina sherpa, son contento di fermarmi un momento con lei e accetto. Mi fa entrare in casa e sedere nella sua bella cucina in stile tibetano con la grande credenza piena di pentole, piatti e bicchieri di metallo e la stufa bassa dove mi siedo a fianco sulla destra, il posto di riguardo per l’ospite (o che altrimenti spetta al capofamiglia), mentre la donna è di solito a sinistra e i figli di fronte al fuoco, i maschi sulla destra e le femmine a sinistra (ed eventualmente gli altri ospiti continuando sul lato a destra seduti intorno a un lungo tavolo basso).
E’ molto gentile. Ha smesso di mungere, ha cominciato a raccogliere legna, ha riattizzato il fuoco ed ha messo su la pentola, cosi’, solo per farmi un te’ che mi ristorasse sul cammino, giacché sono passato da casa sua e sono solo.
Parla poco Inglese, mi dice che ha due figli (che però adesso non ci sono) ed il marito che lavora nella vicina regione del Langtang, poi, chiacchierando ancora scopriamo che eravamo tutti e due al monastero di Key, nella valle di Spiti in Himachal Pradesh, India, nel 2000, quando il Dalai Lama diede lì l’iniziazione di Kalachakra e si ricorda anche lei del po’ di trambusto che ci fu con la polizia ed i monaci del “servizio d’ordine” quando la gente spingeva tutta insieme per far in tempo a vedere il sacro mandala che sarebbe stato spazzato via al termine della cerimonia e ci mancò poco che crollasse la scala sulla quale tutti si affollavano per salire alla sala del mandala. Che combinazione!!
Dopo il té mi accompagna al confine dei suoi campi per mostrarmi il sentiero e intanto corre dietro alle mucche e ad un agnellino appena nato per riportarli nel recinto.
Non mi ha chiesto niente e credo di aver rispettato la sua dignità contadina nel non aver offerto di pagarle nulla per il té.

Riprendo la salita e c’è un altro momento che ricorderò.
Ad un certo punto scendo dei gradini di roccia piuttosto scoscesi, ma non considero che sotto lo zaino ho attaccato il sacco a pelo che mentre scendo punta sul gradino precedente e mi dà una spinta in avanti, per fortuna non abbastanza forte – ma proprio di poco - da spingermi davvero in avanti perché lì sotto ci sono subito alcuni metri di vuoto con delle rocce sul fondo.
Ci sono luoghi nel mondo dove forse la Morte ci sta aspettando (in quel momento? da sempre? - Ma esiste poi il tempo per la Morte?...): ha nascosto lì tutte insieme le condizioni giuste per venirci a prendere senza che noi lo sappiamo, ed è forse per un qualche nostro potere interno, per qualche nostra buona azione commessa in passato o qualcuna cattiva alla quale abbiamo rinunciato o forse perché è lei che poi proprio in quel momento si distrae un attimo con qualcun altro, che invece noi passiamo indenni e rimaniamo a riguardare, nella memoria, proprio quel punto nello spazio e nel tempo in cui per un nonnulla la nostra vita poteva finire, e invece no, invece c’è stato ancora tutto il resto e ancora siamo qui a raccontarlo.
Uno di questi posti, che è sempre quì nel mio ricordo come se a quella fine fossi scampato appena adesso, è un certo punto circa a metà del ponte di Ariccia, vicino Roma – un posto noto per i suicidi – dove a quindici anni, nel pieno della mia crisi adolescenziale autodistruttiva, c’è veramente mancato un attimo che non mi gettassi di sotto per una fine sicura e con questo non gettassi via tutto ciò che è stata la mia vita successiva.
Probabilmente son momenti che passano moltissimi ragazzi in quella fase di crescita, ma io ancora sento che non ringrazierò mai abbastanza quel basilare istinto di sopravvivenza che quella volta mi fece ricominciare a camminare per allontanarmi dal ponte al più presto senza aspettare di aver trovato una risposta giusta ai miei rimuginamenti di allora se fosse più giusto vivere o morire. Ringrazio la spada che ha tagliato di netto il gusto malato di quei ragionamenti, la mano che li ha sradicati senza considerazione. Ringrazio quell’istinto per avermi lasciato vivere tutta la vita successiva, per tutta la gioia e tutti i dolori, tutte le fatiche, compresa questa di questo cammino, per la possibilità di andarmi a cercare dovechessia, come che sia, la mia strada, fino a dimenticarmi i problemi di allora, per i quali avrei perso la vita e che oggi non hanno più nessun senso, oggi che ce ne sono altri che saranno sostituiti domani da altri ancora, fino a fare ogni nuovo percorso in cui sempre ci saranno pure angoli dove la Morte mi aspetta. Ma dopo quel momento su quel ponte, quando giungerò al punto in cui Essa mi prenderà sarà stata lei a cercarmi. Io la accetterò, ma se mi troverò nel punto in cui mi aspetta ci sarò per vivere la vita, non a cercare la morte.

Poco dopo questi scalini di roccia, un punto come un altro, un punto come un altro da ogni punto di vista altrui o precedente, arrivo a Tarkegyang, dove mi fermo a dormire.
Il lodge è di parenti della famiglia presso cui ho alloggiato al villaggio precedente, che me lo ha raccomandato.
E’ una coppia che ha tre figli lama a Dharamsala, sede del Dalai Lama in esilio in India, uno emigrato in Gran Bretagna, una figlia in Israele ed un’altra giovane e molto bella, delicata, che aiuta la madre a far da mangiare insieme ai due fratellini più piccoli.
Dopo un po’ arriva un gruppo di trekkers australiani, un gruppo organizzato, con tre guide e tre portatori. Non ci parlo un granché: l’Inglese parlato dagli Australiani (specie in gruppo tutti insieme) lo capisco poco.
Rimango un po’ a parlare con le guide nepalesi dopo cena.


3-2-08
Oggi avevo intenzione di fermarmi qui, ma fa già parecchio freddo, stanno arrivando nuvole ed il vecchio di casa prevede tempo cattivo. Il villaggio della tappa successiva è di poco più in alto, ma a quanto dicono meno esposto e meno freddo, perciò la decisione è presa: faccio lo zaino e via.

Puntuale, quasi l’avesse chiamata il vecchio, subito comincia a cadere la neve, ma leggera, sebbene per un paio d’ore.
Vado avanti bene: il sentiero è relativamente pianeggiante e mi sento pure la musica sull’Ipod, prima Buddha Bar poi Monte Adentro, i miei cari amici di casa, e poi il grande jazz di Ron Carter.
Dopo un po’ la neve smette , ma un altro problema si affaccia: continuo a camminare da un pezzo senza incontrare né gente né villaggi e ci sono stati un paio di bivi sui quali ho dovuto decidere a intuito. Intuito del quale comincio a dubitare a mano a mano che proseguo nella foresta. Una foresta fitta e nebbiosa: sembra di stare nel “Libro della jungla” o ne “I misteri della jungla nera” e che una tigre stia per saltar fuori da ogni cespuglio. In realtà si vedono solo diversi uccelli e molti segni sul terreno del lavoro di scavo da parte dei cinghiali, ma queste cose le vedo pure a casa mia.

Quando poi arrivo finalmente al villaggio di Sermantang (a conferma della correttezza del mio intuito) mi dicono che sì, le tigri ci sono, ed anche i leopardi, ma si tratta di una razza piccola e molto gentile: se gli fai “Namaste” (il saluto nepalese a mani giunte) ti fanno anche loro “Namaste”, mi dicono scherzando (sarà perché qui son tutti vegetariani che si crea un’alleanza con gli animali – ma pure con i carnivori? – però io comincio a sospettare se si tratti davvero di tigri, anche se.... rimarrò volentieri nel dubbio!).

La famiglia che mi ospita – anche questa parente di quelle dei due villaggi precedenti – è composta da una coppia sui cinquant’anni che hanno tre figlie emigrate in Israele e due figli studenti a Kathmandu che sono tornati al villaggio oggi per la festa del Losar, il capodanno tibetano che ci sarà tra quattro giorni. Sono un ragazzo di diciassete anni ed una ragazza di ventuno. Lei è stata due volte in Gran Bretagna con la compagnia di danze tradizionali nepalesi di cui fa parte. La prima volta aveva quattordici anni e voleva rimanere lì a lavorare, ma non sapeva che in Europa il lavoro minorile è vietato e ora, dice, è troppo difficile ottenere il visto. Lei parla bene Inglese e sembra una ragazza intelligente ed istruita. I genitori lo parlano molto meno, ma passiamo comunque la serata in una bella lunga chiacchierata su tanti argomenti: del Nepal, dell’Italia, del turismo, di una festa con danze di monaci che ci sarà nel villaggio due settimane dopo il Losar che mi fa venire in mente di tornar su per l’occasione.
Ad un certo punto saluto e vado a dormire: starei ancora ma ho capito che qui la gente va a dormire presto e non voglio disturbare (del resto non c’è luce, tranne una lampadina in cucina fiaccamente sostenuta dal pannellino solare in questa giornata nuvolosa).
In stanza solo le candele, per fortuna ne ho un po’ di scorta.
Nel sacco a pelo penso che è una bella fortuna aver trovato questa famiglia.