martedì 20 ottobre 2015

In Nepal, dopo il terremoto

A volte le cose non succedono secondo i piani previsti prima di trovarsi a realizzarle all'atto pratico. In un Paese come il Nepal si può anche dire che questa sia più la regola che l'eccezione. Dopo il terremoto che ha colpito il Paese himalayano con due terribili scosse ad aprile e maggio 2015 che hanno fatto quasi 9.000 morti (ma ne sono poi seguite quasi altre 500 di superiori alla magnitudo 4 fino alla fine di settembre), insieme a mia moglie Santoshi (nepalese) abbiamo organizzato una raccolta fondi attraverso alcune cene sociali di cucina nepalese ed appellandoci a numerosi amici, conoscenti, amici di amici ed associazioni, molti dei quali hanno risposto generosamente dimostrandoci fiducia, considerando soprattutto che si trattava di una nostra iniziativa personale, autogestita e senza appoggiarci a nessuna organizzazione il cui nome potesse dare una qualche garanzia. Inoltre, nell'operazione "sul campo", siamo stati accompagnati e sostenuti anche da Omar Busatto, che aveva partecipato alla raccolta fondi dal Friuli, da Alessio Costantino, che era già venuto in Nepal immediatamente dopo il terremoto e ci aveva mandato i risultati di un suo primo sopralluogo (da cui è derivata anche la sua ricostruzione di un'altra scuola in un altro villaggio - https://www.facebook.com/kirtipur.devachuli) e mio fratello Francesco Cabras che ha documentato con foto e riprese le varie fasi dell'operazione, oltre ad alcuni dei parenti di Santoshi che ci hanno aiutato in vari modi nei nostri spostamenti e ricerche, particolarmente Abinas Tamang e Ghaman Tamang. L'idea originaria era di portare un aiuto ad alcuni villaggi rurali e con ciò di sostenere le comunità contadine nel riprendersi dalla catastrofe e non abbandonare le montagne per trasferirsi in città (e su questa linea ci siamo tenuti) ma l'idea che vedevamo più probabile era particolarmete quella di ricostruire una scuola nel piccolo villaggio di Baisipati - detto anche Chatture - quasi completamente distrutto (36 case su 40) e piuttosto isolato sebbene a poca distanza da Kathmandu. La capitale, pur nella consueta confusione da "day after" un bombardamento o un'esplosione nucleare che normalmente la caratterizza, non mostrava a prima vista segni evidenti di essere stata colpita così recentemente da un tanto forte terremoto. Soprattutto nella parte centrale più antica della città, intorno alla zona di Ason, di alcuni edifici, ma pochi, erano rimaste solo macerie e così anche per parte dei palazzi e templi storici famosi, sia alla Durbar Square di Kathmandu che a Baktapur. Ma più che altro molte case erano pericolanti, puntellate per tenerle in piedi ed ormai inservibili come abitazioni.
Un aspetto preoccupante è che spesso i proprietari non intendono restaurare questi palazzi storici, ma attendono chi li vorrà comprare così come sono ora, contando sul valore immobiliare dato comunque dalla collocazione molto centrale della zona e questo comporterà con ogni probabilità la loro distruzione e ricostruzione ovvero la fine della Kathmandu storica come l'abbiamo conosciuta finora con tutto il suo fascino che ancora riusciva a conservare - pur in mezzo a tutto il casino del traffico di motorini e carretti - e di essa non rimarranno che i palazzi reali delle piazze centrali (che sono l'attrazione turistica) ricostruiti e circondati da una babele di palazzine nuove regolarmente già in degrado dopo pochi anni. Servirebbero pianificazione e lungimiranza, che però, insieme ai soldi per fare le cose, sembrano essere merce estremamente rara in questo Paese. Qua e là ci sono ancora delle tendopoli, in cui restano rifugiati i più disperati insieme, a quanto si dice, ad altri (altrettanto disperati) venuti dai villaggi che cercano di approfittare della situazione mischiandosi agli sfollati per ottenere la cittadinanza nella capitale.
Secondo il nostro programma, durante i primi giorni - passati soprattutto a visitare i numerosi parenti di Santoshi - abbiamo anche raccolto informazioni sul tipo di struttura più opportuno per le ricostruzioni, sia in termini di economicità che di sostenibilità in caso di terremoto. Il modello che viene più comunemente adottato ora dalle ONG qui non è certo molto bello esteticamente né ha nulla a che fare con lo stile tradizionale, ma è funzionale: si parte da una struttura portante in metallo, leggera, si arriva con le pareti in mattoni fino a circa un metro e mezzo e se ne completa la parte più alta con pannelli di cartongesso o con altri mattoni (il cartongesso è più costoso ma è anche più leggero e quindi non pericoloso in caso di crollo).
L'edificio che ne risulta è facile da realizzare, non comporta grandi rischi per le persone (nel caso dovesse crollare) ed ha un costo (di soli materiali) intorno ai 3.500€ per una stanza sui 20mq completa di tetto in lamiera ondulata (che è ormai il materiale onnipresente per le coperture - e spesso anche per le pareti - dopo il sisma). Col nostro budget avremmo potuto comprare il materiale per una piccola scuola di due classi, sufficiente per la quarantina di bambini del villaggio in cui pensavamo di ricostruirla. Le case tradizionali di pietra sono molto più costose e sono anche resistenti, se fatte bene, mentre sono perlopiù crollate dove erano fatte male, con pietra friabile o con troppa terra rispetto alle pietre. Ed era questo il caso, fra i molti, di Baisipati. Siamo andati a Baisipati con tre motociclette: un viaggio ed una strada che non dimenticherò facilmente per l' estrema difficoltà a percorrerla. Le strade che conducono ai villaggi in Nepal (quando ci sono, perché spesso non c'è altro da fare che camminare su sentieri) in molti casi non verrebero nemmeno definite tali secondo gli standard occidentali: percorsi adatti solo ai trattori o agli appassionati di trekking che invece qui vengono affrontati quotidianamente da autobus stracarichi di gente, mercanzie ed animali fin sul tetto con alla guida niente meno che degli eroi che non di rado devono far scendere tutti i passeggeri per superare qualche tratto particolarmente pericoloso richiando solo la vita propria e non quella di tutti gli altri compagni di viaggio. Le prime strade in assoluto in Nepal sono state fatte negli anni '60: prima proprio non ce n'erano. La prima automobile, giunta nel Paese come oggetto di lusso per il re, è stata portata a Kathmandu a spalla da portatori. Fare strade qui, nella parte montagnosa del territorio, è molto costoso e le finanze pubbliche del Nepal sono particolarmente scarse (oltre che impiegate male ed in modo a dir poco non trasparente): le due cose insieme fanno sì che a tutt'oggi molte località siano raggiungibili solo a piedi (anche giorni a piedi) e pure dove si può arrivare con qualche mezzo il viaggio è sempre lungo e scomodo quando non anche rischioso a causa di frane o delle pessime condizioni dei mezzi. Questa situazione è ovviamente un limite strutturale per qualsiasi sviluppo del Paese e soprattutto per le popolazioni dei villaggi. Arrivati a Baisipati abbiamo trovato il villaggio effettivamente distrutto quasi completamente, la gente vive in baracche fatte di lamiera.
Gli accordi presi nei contatti precedenti erano che noi avremmo pagato i materiali per costruire la scuola e gli abitanti avrebbero contribuito da parte loro con la manodopera, ovviamente a titolo gratuito. Mentre discutevamo con un giovane ingegnere locale lo schema di come sarebbe stato l'edificio, però, è emerso il fatto che gli abitanti volevano essere pagati da noi per fare la scuola per i propri figli. Cambiare le cose dopo aver preso un accordo non è affatto una cosa rara da queste parti - almeno nei confronti di stranieri ed estranei come eravamo noi in questo caso - ma il cambiamento (oltre a non piacerci in sé come modo di recepire il nostro contributo) comportava problemi sia di budget che delle prospettive di utilità che avrebbe avuto il progetto. Con i 7.000€ raccolti saremmo riusciti giusti giusti a coprire l'acquisto dei materiali ma nulla di più (e così destinando solo a Baisipati tutti i fondi a disposizione). Inoltre, la ONG che aveva costruito le baracche in cui ora vive la gente aveva montato anche una struttura in lamiera proprio sul posto dove stavamo discutendo per costruire la nuova scuola.
Una cosa indubbiamente spartana e precaria, ma non peggiore dei rifugi che gli sono rimasti come case e comunque utilizzabile, almeno provvisoriamente, per le lezioni nei mesi passati dal terremoto. La struttura invece non era stata utilizzata finora in nessun modo, dei bambini alcuni andavano a piedi (3 ore tra andata e ritorno) alla scuola del villaggio vicino ma la gran parte non ci andavano affatto. Va detto comunque che (lo abbiamo saputo sul posto) la scuola di Baisipati comprendeva comunque solo la prima elementare, che a noi può sembrare quasi come nulla, ma nel contesto del villaggio in cui i genitori sono pressoché tutti analfabeti, già saper leggere e scrivere farebbe una bella differenza. La questione di fondo è che la scuola del villaggio vicino è governativa mentre questa non lo sarebbe stata: ciò significa che i genitori avrebbero dovuto pagare di tasca propria lo stipendio ad un eventuale insegnante; circa 70€ al mese in totale fra tutti, ma pur sempre soldi liquidi che nel villaggio, a differenza del cibo o di ciò che ci si può produrre direttamente con le proprie mani, sono un bene molto raro e difficile da procurarsi. L'immediatezza dei bisogni dunque fa comprensibilmente sì che gli abitanti non siano portati a vedere il beneficio in prospettiva dell'istruzione - ancorché minima - dei propri figli, né (credo) che capissero bene quale interesse avessimo noi a fargli questa scuola: ciò che ci vedevano era semplicemente un'opportunità di lavoro per qualche giorno e quindi di guadagnare qualcosa. Abbiamo anche preso in considerazione l'ipotesi - invece che costruire la scuola - di garantire lo stipendio all'insegnante per qualche anno: c'era anche un ragazzo, l'unico del villaggio che avesse una minima istruzione e che insegnava al villaggio vicino, che sarebbe stato disponibile, ma abbiamo capito che ciò avrebbe innescato invidie nella comunità ed il fatto che la struttura esistente non era stata affatto utilizzata ci ha convinto a decidere che non fosse quello il modo migliore di impiegare il denaro raccolto. Si può portare un aiuto, ma se la comunità, pur nei limiti delle proprie possibilità, non ha fatto già da sè qualcosa per la propria situazione, credo sia molto improbabile che un progetto che "cade dal cielo" non rimanga qualcosa di estraneo ed inutilizzato - come del resto è il caso, come abbiamo potuto ripetutamente vedere, di molti interventi di varie organizzazioni che restano poi abbandonati e senza alcun seguito. Abbiamo dunque lasciato Baisipati e ci siamo rivolti all'altro villaggio a cui pensavamo di dare un aiuto: Bethan, che è anche il villaggio dove vivono i genitori di Santoshi. Fino a qualche anno fa si raggiungeva solo a piedi (4 ore dopo altrettante di bus da Kathmandu), ora, superato a piedi un ponte sospeso, in jeep collettive (costruite per portare 12 persone, ma che arrancano su per la strada sterrata con anche 25 passeggeri più materiali ed animali vari) che arrivano in un'ora e mezza circa (se tutto va bene).
Bethan è un villaggio molto più grande di Baisipati, le case sparse su un territorio abbastanza ampio ad un'altitudine intorno ai 2.000 metri, circa 4.000 persone, non è stato, fortunatamente, tra i villaggi più colpiti, ma ci sono anche qui case crollate e molti, per la paura data dal ripetersi delle scosse, dormono tuttora sotto le strutture di lamiere, anche se la loro casa è ancora in piedi.
Famiglie contadine, ognuna con un pezzo di terra su cui coltivano senape, mais, miglio, amaranto, riso e con qualche animale: un paio di buoi per arare, uno o due bufali ed alcune capre.
A Bethan il problema più urgente era il serbatoio dell'acqua che ha subìto delle crepe importanti in seguito al terremoto. Questo serbatoio raccoglie l'acqua da una sorgente per tutta una sottodivisione del villaggio (Balwadi).
Bisogna dire che il livello di intraprendenza qui è tutt'altra cosa rispetto al villaggio precedente: il costo stimato per il nuovo serbatoio era di circa 6.000€, ma solo in base alla notizia che l'amministrazione statale avrebbe (non si sa bene quando) contribuito con 2.000€, la gente delle 160 famiglie a cui il serbatoio avrebbe dato l'acqua, si sono organizzate tra loro ed hanno cominciato i lavori, senza sapere veramente come avrebbero potuto poi trovare i soldi per portarli a compimento. Quando noi siamo arrivati era già stata scavata a mano (qui si fa tutto a mano) l'enorme fossa (grande come una casa) e costruite le pareti esterne (in pietra a secco) del serbatoio che sarebbero poi state rivestite da quelle in cemento armato.
Noi abbiamo deciso di contribuire con altri 2.500€ con cui comprare il ferro per l'armatura e gran parte del cemento. Il denaro mancante lo avrebbero messo le famiglie coinvolte nel progetto autotassandosi (essendo in 160 nuclei la cifra per famiglia non era troppo alta) e fornendo ognuna 300kgs di breccia che avrebbero fatto esse stesse a mano. In effetti nei giorni che abbiamo passato a Bethan sempre si sentiva, passando vicino alle case, il rumore del martello che batteva sulle pietre per ridurle in piccoli pezzi e capitava di incontrare gente in giro col martello in mano.
C'è voluta una giornata intera di jeep (altrettanto memorabile di quella in moto) per andare a Montali, capoluogo del distretto di Ramechchaap (di cui fa parte Bethan) a comprare il ferro per l'armatura ed il legno per le casseforme.
Dopo qualche giorno a Bethan, volendo diversificare destinatari e forme del nostro contributo, ci siamo spostati in un altro villaggio, Gale Banjang, questo nel distretto di Nuwakot, in una zona vicina al Langtang (per chi conosce il Nepal), un poco a nord di Kathmandu - mentre Bethan è a sud-est. Il villaggio ci è stato segnalato da un amico nepalese, Tilak Lama, organizzatore di trekking e segretario di una ONG locale (M.E.S.O. - www.facebook.com/mesocompany - http://himaland.com/en/news/nepal-earthquake-victims-help-program.html) di cui è tra i fondatori, in quanto finora scarsamente raggiunto da altri progetti di solidarietà. L'idea qui era di comprare delle capre e distribuirle alle famiglie più povere e colpite dal sisma come fonte di sostentamento sia alimentare (per il latte) che, limitatamente, monetaria, vendendo poi i capretti. Lunga camminata per raggiungere il villaggio, alloggio in una struttura di lamiere presso una famiglia e ricerca insieme a Sunil - collaboratore locale di M.E.S.O. - di chi avesse delle capre da vendere. Comprarle a Kathmandu e poi portarle lì non era proponibile, sia perché quelle degli allevamenti della valle difficilmente si adattano bene in montagna sia perché sarebbe stato difficile trovare un camion per trasportarle a causa di un problema nella reperibilità di carburante di cui dirò più avanti. Inoltre comprarle in loco significava aiutare non solo chi avrebbe ricevuto le capre, ma anche chi le vendeva - che erano poi, in definitiva (ed in misura anche maggiore di quanto immaginavamo, probabilmente, come vedremo), lo stesso tipo di persone. Siamo riusciti a trovare 34 capre tra adulte incinte e giovani, tutte femmine ovviamente e da dare con l'impegno che non sarebbero state uccise nei prossimi due anni, ma tenute per allevamento perché dessero dei figli. I venditori si sono accordati fra loro per un prezzo a forfait di 4.000 rupie per le capre adulte e 3.000 per quelle giovani (approssimativamente 40 e 30 euro) indipendentemente dalla qualità di ogni singolo animale....poi si sarebbero aggiustati fra di loro; fortunatamente per noi, altrimenti saremmo ancora lì a contrattare.
Una volta comprate le capre le abbiamo distribuite ad una lista di famiglie selezionate per condizioni economiche disagiate. E quanto a questo direi che l'operazione è andata a buon fine, dato che sia i venditori che i beneficiari erano molto chiaramente gente povera, che aveva senza dubbio bisogno sia degli animali che dei soldi. E probabilmente li hanno avuti entrambi.
Infatti, ci è venuto un po' il sospetto che in realtà fossero membri delle stesse famiglie quelli che ottenevano i soldi per aver venduto le capre e poi di nuovo le capre stesse. Francamente, arrivando in un villaggio come degli estranei (e per di più stranieri - o accompagnati da stranieri, nel caso di Santoshi) al di là degli aspetti più evidenti non c'è veramente modo di sapere fino in fondo come stiano le cose: in effetti la gente del posto può farci credere ciò che vuole, a meno di non avere i contatti personali ed il tempo necessario ad andare al di là della superficie. Comunque, anche fosse che qualcuno abbia fatto un po' un "gioco delle parti" e si sia fatto regalare le capre che gli avevamo appena comprato, l'obiettivo di dare una mano alle famiglie di contadini poveri del villaggio è stato raggiunto e se qualcuna di esse ha avuto un doppio aiuto, meglio per loro: non era certo di troppo.
D'altra parte - e senza che questo dubbio che ci è rimasto coinvolga in alcun modo la buona fede di Tilak della MESO, il quale al villaggio non ci era ancora mai stato, né il suo collaboratore locale Sunil che si è dato da fare ben oltre il dovuto per far andare tutto al meglio possibile (anche a costo di discussioni con i suoi compaesani) - abbiamo deciso di destinare il resto di quanto avevamo previsto di dare a questo villaggio, non più nell'acquisto di capre ma come contributo alla scuola elementare locale che era crollata lasciando ora i bambini a seguire le lezioni - come al solito - sotto le lamiere e dove avevano bisogno di un minimo di attrezzatura: banchi, lavagne, quaderni, penne ecc....
Ormai i giorni rimasti prima del rientro in Italia erano pochi e siamo tornati a Bethan, dove i lavori del serbatoio erano andati avanti col montaggio del'armatura di ferro.
Ma di cemento ce n'era ancora solo la quantità che avevamo comprato prima perché da un po' di giorni si era creata una situazione in Nepal (protrattasi poi per alcune settimane) molto grave di scarsità di tutti i beni d'importazione a partire soprattutto dai carburanti, ma anche di moltissime altre cose e comunque della possibilità di rifornire i rivenditori in ogni parte del Paese. In questo periodo - e dopo otto anni di discussioni politiche - il Nepal ha adottato la nuova Costituzione (la prima dalla fine della monarchia) che però è avversata dalla minoranza degli abitanti (detti Madeshi) delle pianure del sud, il Terai, detto anche Madesh, che vorrebbero maggiore autonomia (preludio probabilmente ad una futura richiesta di annessione all'India). I Madeshi sono di origine e cultura indiana e popolano la zona più fertile e relativamente produttiva del Nepal, dove si trovano le poche industrie e da cui passano soprattutto le uniche vie di approviggionamento di tutti i beni basilari per l'economia moderna: le strade di comunicazione con l'India, da cui arriva quasi tutto. Dal lato dell'altro dei due giganti tra cui è schiacciato il Nepal, la Cina, il territorio è troppo montagnoso e non ci sono strade utili per trasportare petrolio ed altri rifornimenti. Per cui l'India può di fatto costringere quando vuole questo piccolo Paese in condizioni di carenza dei beni primari esercitando, come in questo caso, un embargo non dichiarato, adducendo che mancherebbero le condizioni di sicurezza per poter lasciar viaggiare i camion a causa delle agitazioni anti-Costituzione nel sud del Paese, sebbene i casi di scontri cruenti siano stati molto limitati, ma riuscendo così ad esercitare una pressione fortissima sul governo nepalese per spingerlo verso i propri interessi. In questi giorni, infatti, si vedevano per le strade di Kathmandu e delle altre città, file anche di due-tre chilometri di moto, auto e bus in attesa anche 30 ore di seguito per ottenere pochi litri di benzina razionata dai distributori presidiati dall'esercito, mentre la stessa era arrivata al mercato nero a quasi 6€ al litro, come sei volte il prezzo normale (in un Paese dove i prezzi in generale sono circa un decimo di quelli italiani).
Il serbatoio di Bethan era dunque già a buon punto quando sono partito, ma doveva aspettare ancora un poco per essere completato. La gente del villaggio ha voluto comunque farci una piccola cerimonia di ringraziamento in cui alcuni degli abitanti di maggior spicco hanno parlato ed in cui anche io sono stato invitato a dire qualcosa.
Cosa che ho fatto ricordando in primo luogo che il contributo che abbiamo dato non veniva solo da noi, ma soprattutto da tante altre persone che non potevano essere lì in quel momento, ma che dall'Italia avevano voluto partecipare a dare un aiuto per le popolazioni dei villaggi nepalesi colpiti dal sisma.
Ed anche che l'aiuto che davamo voleva essere al tempo stesso un incoraggiamento a tener duro e non abbandonare la vita del villaggio, che è la vera dimensione di vita, la vera cultura, economia e salvaguardia della biodiversità e del territorio del Nepal (e probabilmente non solo del Nepal).