mercoledì 9 settembre 2009

Trekking in Helambu - 1



26-1-08
E’ proprio una bella fortuna che ho trovato questa casa, quasi un bar, quasi una locanda, in cima al villaggio di Mulkharka, l’ultima casa.
Una bella fortuna che hanno un letto su che possono lasciarmi. Loro, una famiglia di giovani sposi tamang con due bambini, dormiranno di sotto nel negozio, se cosi’ lo si puo’ chiamare. Perfetto! Loro ci guadagnano qualcosa ed io evito di ritrovarmi al buio lungo il sentiero.
Non solo, ma appena entrato nella stanza che fa da soggiorno, magazzino, cucina, da casa insomma, sento subito l’odore caratteristico della tungbha, la bevanda tradizionale delle genti di queste parti fatta di miglio fermentato alla quale sono particolarmente affezionato.
In realta’ ne e’ una variante, un distillato leggero che chiamano raksi o forse cosi’ dice il tipo di casa per farmi capire perche’ non e’ il classico raksi, distillato di riso nepalese molto forte, ma ne e’ una variante leggera, vagamente simile al sake’. Guarda caso lo stanno facendo proprio ora che arrivo e me ne fanno assaggiare un bicchiere tiepido. Cosi’ mi viene l’idea: me ne faccio scaldare un pentolino in modo da averne un po’ da bere caldo.


Mentre salivo per il sentiero stavo sudando ed, insieme ai miei pensieri lamentosi sulle mille cose, mi rimproveravo di aver portato con me tutta questa roba che rende lo zaino troppo pesante. Ma adesso, appena mi sono fermato, la vera temperatura esterna si manifesta, insieme alla stanchezza. E cosi’, subito, mentre comincio a parlare col pedrone di casa, mi sale il freddo e, uno dopo l’altro, devo indossare tutti gli indumenti che ho con me.

Il raksi caldo crea un certo senso di rilassamento e di aver trovato un posto dove stare , per un poco.

L’uomo e’ giovane, forse anche un poco piu’ della moglie, dall’aspetto. Sta facendo cuocere il miglio per fare il raksi su un fuoco di legna sotto una tettoia esterna sul retro della casa. Non lo beve, lo vende solo, dice, ma e’ una bevanda di cui fidarsi, non come quella roba che vendono giu’ a Kathmandu.
La casa all’interno e’ spoglia, il pavimento di terra liscia come anche le pareti, il focolare in un angolo, con questo disgraziato sistema himalayano che non prevede una uscita per il fumo. Il soffitto, di legno, infatti e’ tutto annerito: non c’e’ verso, il fumo deve trovare da se’ la sua via in qualche modo da sotto il tetto, e intanto la casa se ne riempie completamente, solo accucciati per terra ci si salva.
Mi hanno lasciato il piano (cioe’ la stanza) di sopra, dando una pulita al letto: tutto buono, non c’e’ da andare per il sottile, l’alternativa era un sentiero sconosciuto in discesa e al buio.
Di sopra ci andrò dopo, quando sarà il momento di dormire, intanto mi siedo fuori a scrivere, su un tavolo per i clienti del negozio-bar, l’unico del villaggio. A godermi l’ultima luce del giorno.
Ma non scrivo a lungo. Il mio ospite ha voglia di chiacchierare. Parla abbastanza Inglese: è nato in questo villaggio, ma è l’unico della sua famiglia ad esservi rimasto. Il padre morto otto anni fa, la madre risposata e le sorelle, sposate anch’esse, vivono chi altrove in Nepal e chi in India. Anche lui ha vissuto in India, a Delhi, Calcutta e Darjeeling dove ha studiato per due anni al college, dice, e intuisco una nota di rammarico: è un tipo sveglio, intelligente e capace di iniziativa, se avesse potuto studiare.....
Ha costruito questa casa tre anni fa: è diversa dalle altre del villaggio, tutta dipinta di verde, con una specie di balconcino tutto intorno alla stanza di sopra e con un bagno esterno pulito, tutto intonacato di cemento.
E sta studiando comunque. Oggi è a casa perché è sabato (giorno festivo in Nepal, dove la domenica è lavorativa), ma durante la settimana va tutti i giorni a Kathmandu per due mesi. Fa un corso di lingua coreana, organizzato dall’Ambasciata della corea del Sud per coloro che vogliono andare a lavorare lì: se uno passa gli esami con un buon punteggio ottiene il visto gratis e viene inserito per i posti di lavoro disponibili.
Mi fa vedere il libro degli esercizi con i caratteri coreani e mi dice che per i numeri grandi usano i caratteri cinesi, “come voi italiani usate per scrivere l’alfabeto inglese”.
Non posso fare a meno di puntualizzare che, sebbene gli Inglesi (come i loro figli storici, gli Americani) abbiano negli ultimissimi secoli dominato il mondo, sono semmai stati loro a prendere l’alfabeto da noi dato che quando loro erano ancora delle orde barbariche venute dalle steppe da noi c’era già da secoli una fiorente civiltà..... così come c’era già da un bel po’ nell’India (che arrivava allora fino a qui) al tempo in cui noi ancora accendevamo il fuoco coi legnetti.

Comunque intanto si è fatto buio e, a proposito di fuoco, ci spostiamo proprio sotto casa a scaldarci con quello che i contadini che lavoravano il campo vicino hanno appena lasciato.
Il tipo lo ravviva con degli sterpi e mi dice di non metterci i pezzi di legno più grandi ché non sono i suoi.
Mi chiede dell’Euro e dell’Unione Europea e via via si parla – in un Inglese superficiale - della probabile fine della monarchia e dell’ascesa dei Maoisti in Nepal, del pericolo che le promesse elezioni siano di nuovo rimandate, dei politici che in tutto il mondo mentono e mangiano sempre, delle tigri che invece, dice lui, qui non fanno male a nessuno, solo alle capre, e poi dei telefonini che ormai nel villaggio ce l’hanno tutti, che qui è l’ultimo posto dove prendono la linea prima delle montagne, e che a Kathmandu vendono quelli cinesi a 15 euro e ancora dei campi e della vita in città e nel villaggio.
Chiacchiere sul mondo in quest’aria fredda e qualche goccia di pioggia, con le braci rimaste che rischiarano l’oscurità vicina e le luci della valle di Kathmandu che popolano quella lontana.

Alle 20.00 torna la luce (che in tutto il Nepal, dove c’è e compresa la capitale, è razionata, a orari – chi dice a causa del congelamento invernale di alcuni dei bacini delle centrali idroelettriche, chi perché il governo vende sottobanco l’energia all’India...) e si mangia. Riso freddo e dhal (lenticchie) con due uova fritte sopra fredde pure quelle ( non c’è problema: vale sempre il discorso dell’alternativa, come sopra) ed un’altra ciotola di raksi caldo.
Pur nella estrema semplicità della casa - dove tutto si fa per terra, secondo l’uso locale – non manca una tv a colori con lettore dvd ed un frigorifero, portati quassù a spalle da un portatore.
Non si fa tardi la sera a Mulkharka, alle 21.30 siamo a letto.
Anche il pavimento di sopra è in terra, sopra le assi annerite dal fumo; alle pareti qualche poster di attori indiani di Bollywood, Shah Rukh Khan appostato su una moto da corsa con la faccia da duro e qualcuno di quei paesaggi tipo campagna svizzera che piacciono tanto agli indiani adornati con frasi quali “The highest wisdom is kindness” oppure “If better is possible, good is not enough”.

Nel sacco a pelo, sotto la trapuntona, guardo il soffitto, tetto in lamiera zincata sul quale corre un ratto di tanto in tanto e penso al mio ospite, nato e vissuto in questo villaggio di montagna, che prepara di sotto il suo esame di coreano per trovarsi tra un po’ ogni giono al lavoro in una fabbrica di Seoul..

(By the way, preparando il sacco a pelo, ho trovato un coltello sotto il cuscino – e lui ha rifatto il letto poco prima – ma non credo sia per avercelo già lì pronto quando viene a sgozzarmi stanotte: mi sembra un buon tipo e poi, se mai se lo portava da sotto – che questo neanche è affilato!).


27-1-08
Arrivato a Chipling. Ling in tibetano significa luogo. Non so se Chipling significhi “luogo in cima”, ma sarebbe più che appropriato.
Erano proprio quelle quattro case che si vedevano già da un pezzo sulla cresta estrema della montagna che veniva da chiedersi come fosse venuto in mente a questa gente di abitare in un posto che più esposto ai venti non si può.
Anche la famiglia di questo lodge è tamang, e la discendenza dalla stirpe di Gengis Khan che qualcuno attribuisce ai Tamang si addice bene al padrone di casa i cui baffoni e il cui cipiglio non avrebbero sfigurato affatto tra la schiatta del grande conquistatore mongolo.
Spero almeno che il freddo notturno che il luogo promette induca i ratti locali a più miti consigli rispetto a quelli della notte scorsa che hanno imperversato lungo le travi del tetto sopra di me e mi sa pure sopra il letto stesso una volta.
Nel grande gioco della Natura c’è posto per tutti, per carità, e tutti hanno diritto a fare la loro vita nel modo che gli è proprio. Così i ratti: non gli nego certo il diritto di mangiarmi il cibo e di scorrazzarmi addosso di notte, ma sono certo che loro sanno bene che ho anch’io il mio, di mettergli in giro un po’ di veleno, come faccio, almeno a casa mia.

Stamattina la giornata era partita bene, come parte in genere una giornata, molto prosaicamente, al bagno.
Accucciato sul cesso “alla turca” (chissà perché lo chiamano così? E’ usato da tutti i popoli del mondo – almeno da chi ce l’ha – tranne noi Occidentali e non si può dire che i Turchi siano stati il primo popolo extraeuropeo con cui noi italiani siamo enrati in contatto; forse il primo di cui abbiamo usato i servizi igienici? Sono quei misteri che in genere gli storici non si occupano di svelare..... la storia delle ibridazioni tra le usanze igienico-sanitarie tra i popoli. Eppure sono cose che hanno la loro importanza, basti pensare all’annoso luogo comune sugli Inglesi che non usano il bidet o alla diatriba Oriente-Occidente a proposito dell’uso dell’acqua o della carta igienica, al dare o meno la mano sinistra ecc...).
Bé, comunque, accucciato appunto lì, in uno di quei momenti che, dato lo stato di attesa, permettono alla mente di sospendere per un momento l’abitudine alla ricerca di una apparente certezza sullo stato dell’arte della nostra coscienza seguendo costantemente un filo logico (che poi, se lo seguissimo davvero, vedremmo che in realtà va un po’ a vanvera dove gli pare) osservavo la parete tirata a cemento di fronte a me e notavo che era fatto con particelle di sabbia più grandi e conteneva qua e là granelli più luccicanti.
In Italia una gettata di cemento avrebbe avuto un aspetto un poco diverso. Anche nella superficie più anonima ed uniforme, irriconducibile ad alcuna particolare cultura o tradizione materiale, appare la diversità del mondo: se il cemento è industriale e potrebbe forse essere lo stesso ovunque, c’è pur sempre la sabbia che dice della terra, del territorio dove si sta, oltre agli stili locali dei muratori.

Dopo un té con qualche biscotto ho salutato la famiglia e son ripartito. Non ho neppure chiesto il loro nome, ora che ci penso, e neanche loro hanno chiesto il mio.... ma non ce n’era bisogno: siamo tutti esseri umani, e tutti di passaggio nelle nostre vite reciproche.

All’inizio un paio d’ore di salita, ma l’ho sopportata meglio di ieri, forse perché sono entrato nello spirito del trekking, mentre ieri ancora la giornata era cominciata nella confusione e nelle relative comodità di Kathmandu. Forse perché ho già visto ieri come funzionano gli stati d’animo: se il cammino è faticoso la vita è cattiva, hanno la precedenza i pensieri negativi e mentre ce n’è uno altri già stanno facendo la fila. Quando il sentiero permette di procedere tranquillamente la vita non è poi così male e questo trekking potrà essere una bella esperienza dopo la quale ho già alcune buone idee sul da farsi.
E poi, a parte tutto, c’è anche la realtà, quella esterna, l’ambiente, le montagne per le quali sto camminando. E questo a volte è potente.

Ci sono momenti in cui la bellezza acceca i pensieri,
li zittisce
e rimangono solo le foglie degli alberi
coperte di neve

Sì, infatti intanto è comparsa la neve, caduta durante la notte. Non tanta, a tratti, ma sufficiente a richiedere attenzione quando, scavalcato il primo passo, il sentiero comincia a scendere, ci sono scalini di pietra ed è facile scivolare, se la neve è un po’ più ghiacciata (cosa che mi capita ben presto, per fortuna senza conseguenze).

Dopo qualche ora, sosta per una tukpa (zuppa tibetana) a Chisopani dove incontro Nicola, un ragazzo toscano e due canadesi.
Questi il contrario del primo: stanno facendo trekking da due mesi sulle montagne nepalesi, prima venti giorni in Annapurna, poi una settimana di sosta sul lago di Pokhara, ed ora altri venti da queste parti. Vengono ora dal Langtang ed hanno superato il passo del lago di Gosaikund con la neve che gli arrivava alla vita ed una bufera di vento gelido. Canadesi: ben attrezzati ed abituati al freddo.
Nicola è partito un giorno prima di me per il mio stesso itinerario – molto più facile – dell’Helambu; ha passato la notte a Chipling (dove mi trovo io ora che scrivo) e stamattina era partito per Kudumsang (la tappa successiva), ma dopo un’ora e mezza di cammino su una neve di pochi centimetri si è ritrovato con le sue scarpe poco adatte ed i pantaloni leggeri di cotone tutti fradici, troppo infreddolito, e ha deciso di abbandonare. Ora sta tornando indietro e vuole essere a Kathmandu per stasera in una buona stanza e sotto una bella doccia calda. E credo che ce la farà: dai tempi che mi dice sulle tappe pare che cammini veloce e del resto ha uno zaino leggero – è appunto per questo che deve tornare: non ha portato con sé i vestiti necessari.
E’ un peccato che torni indietro, avremmo fatto lo stesso percorso, è un ragazzo simpatico e credo sarebbe stato un buon compagno di viaggio. Ci pensa anche un po, ma poi rimane della sua decisione.
In fondo il trekking gli serviva per passare una settimana prima del volo per Delhi: vuol tornare presto in Himachal Pradesh, nella valle di Parvati. “Qui in Nepal” si lamenta “il fumo non e’ buono. Si’, quando sei in Italia puo’ anche andare” dice “ ma quando ti abitui al charas quello vero.... è un’altra storia!”.
Il tempo che ci mettono a preparare sia la mia tukpa (e’ una zuppa semplice, l’ho chiesta proprio per fare presto) che il dhal bhat (riso con lenticchie e curry) dei canadesi mi fa pensare ad una strategia per indurci a fermarci qui per la notte, dato che hanno anche le stanze, ma è ancora presto e finalmente ripartiamo, Nicola e i canadesi verso Kathmandu ed io per i prossimi villaggi.

Il sentiero prosegue – per la serie “La vita è bella” – abbastanza ampio e pianeggiante per un’ora e mezza e poi... cominciano i guai. Dopo un gruppetto di case con un piccolo stupa parte un tortuosissimo sentiero ripido in salita. Un’autentica “appettata”, come l’avrebbero definita i miei genitori quando ci portavano in montagna a mio fratello e a me da piccoli (ho mandato un sms a mia madre stasera - mio padre non puo’ riceverne più purtroppo – per ringraziarli di questo: chissà se sarei qui ora se non lo avessero fatto?).

Lo dicevano anche la guida Lonely Planet, Nicola e i canadesi: prima di Chipling c’è una bella “ appettata” (anche se ognuno lo diceva in un modo diverso).
All’inizio del sentiero c’è un piccolo lodge-negozio dove compro una bottiglia d’acqua da una ragazza dalla carnagione molto chiara e dai tratti molto cinesi. Il prezzo è più del doppio che a Kathmandu, ma li posso capire: qui ogni cosa bisogna portarcela a spalla e... va bene che sono gli Sherpa dell’Helambu, ma le cose pesano uguale.
Incomincio la salita. Mi fermo varie volte per mettermi e togliermi la giacca a vento, secondo che il sentiero è più o meno esposto. Ad un certo punto mi metto gli auricolari ed accendo l’Ipod: in certi casi ci vuole quel po’ di carica in più che la musica può dare.
Mi muovo tra strisce strettissime di terreno terrazzato, ma su un fianco così ripido della montagna che sono più alti i muretti di pietre che le sostengono di quanto siano larghe le strisce. Ogni tanto c’è un contadino che ci spinge sopra un aratro di legno attaccato ad un bufalo, bambini smocciolanti che giocano portando al pascolo poche capre, una vecchia con un grosso anello d’ottone che le attraversa il naso che fuma seduta sul sentiero sghignazzando con un’amica.
In questo contesto mi serve qualcosa che abbia lo spirito di quando anche l’Italia era contadina, di quando anche da noi si terrazzava tutta la terra utile in montagna, mi serve la musica e l’energia che nascevano da questa fatica, da questa necessità, da questa realtà: metto “Taranta Power” di Eugenio Bennato e vado su, per la salita.

E’ un piede dopo l’altro, sempre in diagonale, a zig-zag rispetto al sentiero per addolcirne la pendenza; si allunga la strada così, ma ci si fa anche amicizia. Ed è meglio perché è una compagna che chiede molto. Ci sarebbe la voglia di rinunciare, lo zaino è pesante, ma per tornare indietro è troppo tardi a questo punto e ci sono quelle quattro case lassù in cima (ma che ce le hanno messe a fare proprio lì?) che sono un po’ una minaccia e un po’ una promessa. E poi la Montagna cos’è se non vincere contro noi stessi? Contro il nostro proteggerci dalle fatiche necessarie comuni a tutti in Natura? Contro il nostro sottrarci alla Vita, in fondo?
Andiamo in montagna per un motivo qualsiasi o anche senza un vero motivo e quando siamo lì, proprio nel punto più brutto, sappiamo che siamo lì per quello, per combattere, per imparare che non c’è via di fuga nella vita: c’è solo un passo dopo l’altro.
Chi ce la fa può farli dritto per dritto, magari dentro un metro di neve, come i due canadesi, c’è chi li fa cambiando destinazione, come Nicola, io li faccio in diagonale, di traverso, a zig-zag, ricamando “non a destra” e poi “non a sinistra”, corregendo e contraddicendo, cambiando sempre approccio, cambiando via d’accesso, mai in modo unilaterale, vedendo i due aspetti, senza puntar dritto né mai perdere di vista la meta alla quale sto andando.

Ed eccomi dunque adesso qui a Chipling, sul terrazzino di una di queste quattro case di pietre ed assi da questa famiglia tamang a riscaldarmi con una tazza di té col latte e tanto zucchero, che sa un po’ di fumo di legna come certamente tutta la cucina dove l’hanno preparata.
Inizio a scrivere queste note in fretta, con l’ultimo sole, ma potrò continuare poi in stanza - dopo la cena col solito dhal bhat quasi freddo – grazie alla lampadina alimentata da un inaspettato pannellino solare caricatosi pazientemente durante questa giornata di lento cammino.


28-1-08
Oggi è la prima giornata di sole, cielo terso e la prima vista delle montagne alte e innevate.
Faccio colazione nell’aia su un tavolo di legno sistemato sotto il lungta, l’alta bandiera verticale con le preghiere buddhiste scritte sopra secondo l’uso tibetano, mentre il baffuto padrone di casa ed alcuni amici si godono il sole giocando a carte sul prato dietro di me.

Dopo colazione riparto, un po’ di salita e dopo un paio d’ore incontro tre viandanti locali seduti fuori da una casa-negozietto ed uno di loro che beve una Coca-Cola mi fa cenno di sedermi a berne una anch’io., ma declino l’offerta e proseguo. “Caro amico” penso tra me e me ”tu conoscerai queste montagne, ma io conosco la Coca-Cola: ti dà un momento di piacere e subito dopo hai più sete di prima” e per me non è certo il caso, dato che non mi porto neanche una scorta d’acqua per non gravare il peso – tanto ogni qualche ora si trova sempre un villaggio.
Poi il sentiero scende su un piccolo insediamento, Gul Bhanjyang, dove vedo alcune donne tamang intente alle loro occupazioni quotidiane, ma così tipiche, così “etniche” con i colori dei loro vestiti e gli ornamenti, che rimpiango per un po’ della salita di non aver avuto la sfacciataggine di fotografarle incurante se fossero d’accordo o meno. Perdo molte belle immagini da portare a casa per questa forma di rispetto (o di timidezza?), però come si fa a passare da totale straniero per un villaggio dove tutti sono abituati a conoscersi da generazioni ed hanno le loro usanze antiche nell’interagire e marcare il reciproco spazio e rispetto e, senza neanche fermarsi a prendere un té e far due chiacchiere, sguainare la macchina fotografica e carpire abusivamente l’esotico che troviamo nel quotidiano altrui?
Alla fine mi consolerò comprando un bel libro fotografico a Kathmandu; quelli li fa gente che viene qui apposta, magari ci stanno mesi nei villaggi, probabilmente si mettono d’accordo e pagano per fare le foto – e infatti trovano sempre l’immagine ideale, chissà come fanno? – oppure, non lo so, se hanno il pelo sullo stomaco di fotografare di prepotenza..... io non ce l’ho - e non ho neanche un teleobiettivo di quelli da portare a spalla.
Ma ben presto le autocondanne e le autoapprovazioni si mostrano essere un lusso che la coscienza non può permettersi mentre la fatica della salita la richiama alla sua unità con il corpo. Ed è di nuovo un passo dietro l’altro sul sentiero ripido, peggio di ieri, che ora a tratti si distingue e a tratti no, e bisogna indovinarlo e non confonderlo col percorso semiasciutto del torrentello formato dalla neve sciolta.
Passo per qualche rifugio di pastori abbandonato, per qualche lodge chiuso nella bassa stagione, ogni tanto. E lo spiazzo davanti, fatto per dar spazio alle tende dei trekkers, e’ un breve momento di pace orizzontale con un po’ d’erba per terra e l’immensa sconfinata vista tutt’intorno.

Le cime lontane con la neve, intatte, che sempre aspettano più su, e le montagne terrazzate, scolpite dalla testarda tenacia contadina appena superate. Le bandiere di preghiera tibetane punteggiano come lunghi rosari il perimetro dello spiazzo e convergono al centro sulla punta di quella alta.
Vien sempre spontaneo un inchino a queste bandiere che rappresentano l’Insegnamento grazie al quale sappiamo che a questo momento presente ci possiamo inchinare..... senza un perché.

Fatica... fatica... continua a salire questo sentiero e se c’è un bivio non ci si può sbagliare: quello giusto è sempre quello più in salita, che va più su proprio verso la cima, non quello che la aggira.
Sempre avanti, sempre dritto dunque. Anzi no, a zig-zag, altrimenti la cima non sarà rotonda.

Dopo tanta fatica,
superato il passo,
una immensa soddisfazione
.... ed andare oltre
(ed oltre ed oltre ed oltre ancora un pò
Ky Ky So So Largyalo! )

La cima e’ una punta? Nella nostra mente, e forse nella forma dlla roccia, ma la cima è l’immenso spazio, la visione totale, a 360 gradi, e quella lascia senza parole: contiene il passo per il verso e il passo di traverso.


Finita!!
Ora si scende, lentamente: un po’ di neve, attenzione sulle rocce e foresta di rododendri e querce himalayane tutt’intorno.
Pian piano arrivo al nuovo villaggio: Kutumsang, il primo che appartiene alla comunità Sherpa , il popolo più montanaro del mondo, una specie di aristocrazia delle rocce, del freddo, del vento, della neve e dei sentieri scoscesi, di gran carichi sulle spalle, tutto portato con energia, grande dignità ed allegria.
Punto subito quella che già da lontano sembra la casa più ben tenuta delle altre, “Namaste Lodge”: benissimo!
Mi accoglie un vecchio con tre denti e trecento anni (apparenti), ma ancora energico: mi mostra una stanzetta col pavimento di legno e due grandi finestre che guardano le montagne e mi ingiunge di aspettare di sotto in una specie di sala da pranzo mentre lui se ne va, probabilmente a chiamare qualcuno che parla un po’ d’Inglese. Infatti di lì a poco arriva un ragazzetto di quelli con l’aria che la sanno lunga, o che più che altro sono abituati a relazionarsi con giovani backpackers – immancabilmente con l’aria di saperla lunga.
Parla Inglese abbastanza bene, mi dice che la stanza è gratis se mangio da loro (è una cosa abbastanza frequente qui in montagna) e che hanno pure la doccia calda con i pannelli solari.
Non ci voglio credere!!! Neanche nella guest house dove stavo a Kathmandu riuscivo ad averla con certezza: voglio accertarmi di quanto sia effettivamente “calda”.
Be’, diciamo che lo è sufficientemente e soprattutto che di una doccia ne ho proprio bisogno, per cui entro nel cubetto di cemento che la contiene e comincio a spogliarmi. Mai avrei creduto poco fa, mentre sull’ultimo tratto di sentiero ventoso aumentavo gli strati di copertura, che di lì a poco mi sarei spogliato completamente in mezzo a queste montagne, ma “la vida te da sorpresas” e una bella doccia e vestiti puliti bastano spesso a cambiarti in un attimo la percezione della vita.
Basta così poco? Direi, in realtà spesso sì, nel bene e nel male.
Dunque mi spoglio: con fiducia (più o meno) che arrivi questa benedetta “acqua calda”.

Dopo la doccia qualcosa per scaldarmi dentro.
Neanche qui fanno la tungbha. Hanno pero’ il chang (un’altra bevanda locale simile) che qui fanno col mais a differenza di quello che trovavo in Ladakh, dove lo fanno con l’orzo.
Gliene chiedo una tazza calda e mi invitano a sedermi con loro in cucina davanti alla stufa bassa e lunga tipica degli Sherpa e simile a quelle usate anche in Ladakh, solo che qui non sono decorate. Come anche lì la cucina è una stanza lunga e piuttosto buia con una lunghissima credenza in legno stracolma di piatti, bicchieri, pentole ecc... molti di alluminio, qualcuno di rame. C’è anche un letto in fondo dovee dormono i coniugi di casa.
Il vecchio che mi ha accolto mi sorride, gli sto simpatico; non ci possiamo parlare, ma possiamo condividere il calore della stufa, che intanto scalda pure le tazze di chang che ci abbiamo appoggiato sopra.
Il figlio del vecchio, padre del ragazzo, è un uomo magro, alto e asciutto, col classico berretto nepalese a semicono ma nero in questo caso. Contadino e liutaio: costruisce i Tam Gnin, i piccoli mandolini sherpa a quattro corde (due singole ai lati e una coppia al centro). La musica sherpa non è che mi entusiasmi onestamente, ma l’oggetto sì, ne ha alcuni appesi al soffitto e me ne fa vedere uno. Piccolo e leggero il Tam Gnin è tutto decorato con i simboli tibetani di buona fortuna ed ha l’estremità dove si tirano le corde intagliata a forma di testa di drago: continuerò a mirarlo e rimirarlo fino a chiedergli se me ne vende uno e ad aumentare così ancora un po’ il mio carico (se mai ce ne fosse stato bisogno).
La moglie è una di queste meravigliose donne sherpa: belle, forti, aperte, cordiali, allegre e dignitose, all’occorrenza anche dure, decise, sempre in attività, sempre a lavorare e sempre pronte a sorridere e cantare, come anche a stare in silenzio davanti al fuoco. Con i loro occhi mongoli ed i lunghissimi capelli neri per me incutono rispetto, ammirazione e desiderio nello stesso momento. Son tanto brave a stare al loro posto quanto a tener gli altri al loro e al tempo stesso sono gioviali ed accoglienti.
Una benedizione per i loro uomini.
Il resto della famiglia e’ composto dai due ragazzi presenti (quello di prima ed uno più giovane che, visto il mio zaino, mi si offre come portatore) e due altri figli assenti: una figlia sposata che vive col marito nella regione contigua del Langtang ed maschio più grande che studia come lama nel monastero dell’insediamento dei rifugiati tibetani di Bylakuppe, vicino Bangalore in Karnataka, sud India, dove c’è una specie di grande università buddhista.
L’interesse per lo strumento musicale e qualche nota suonata dal mio ospite mi induce ad andare in stanza a prendere il mio flauto traverso che ho nello zaino e fargli dunque vedere lo strumento che suono io, fargli sentire qualche melodia anche, italiana o giù di lì.
Il flauto riscuote un certo interesse: tutti cercano un po’ di suonarlo – il che , ovviamente, all’inizio non riesce tanto bene, diciamo, appena un po’ meglio dei miei accenni col tam gnin.
Andiamo avanti un po’ dopo cena, fra suoni e parole sotto il soffitto affumicato mentre i ragazzi tagliano a strisce da mettere poi a seccare sopra la stufa un pezzo di carne di bufalo che hanno appena comprato da gente di un vicino villaggio tamang. “Noi” dicono “siamo buddhisti e non uccidiamo animali”: li comprano macellati dai Tamang, anch’essi buddhisti, ma ad un gradino più basso nell’aristocrazia della montagna.
Ad un certo punto i due coniugi semplicemente cominciano a prepararsi per andare a letto, nella stessa stanza dove stiamo ancora chiacchierando i ragazzi ed io, e così mi pare il caso di andare anch’io a dormire.

La notte passa abbastanza bene, il freddo non lo soffro, anche se il chang è una bevanda in fermentazione, il che, un po’, non manca di farsi sentire....


29-1-08
Kutumsang è poche case su una cresta che sale su per la montagna e molti campi terrazzati semiverticali (be’, non proprio, però piuttosto ripidi) su entrambi i versanti.
Kutumsang è il nome che il governo nepalese o i suoi redattori di mappe hanno messo al villaggio il cui nome sherpa è in realtà Taa Kor che significa “il posto delle trappole per tigri” (più o meno) perché una volta (ora non più) c’erano qui molte tigri e la gente si difendeva con le trappole. Così bene che ora non ce ne sono più – e francamente (con buona pace degli animalisti di città) direi pure per fortuna dato che ci tengo anch’io che le tigri non scompaiano, ma che insieme a loro rimangano foreste e montagne disabitate che possano essere un buon habitat per loro ed eventualmente vasti parchi nazionali per noi dove possiamo anche andare a vederle eventualmente, ma sapendo di andare a casa loro e attrezzandoci di conseguenza. Come potrebbe anche trattarsi benissimo di zone del tutto lasciate solo a loro e ad altri animali selvatici perché non sta scritto da nessuna parte che ogni luogo debba essere esplorato, ogni cosa “conosciuta” – che poi quale ambiente possiamo davvero conoscere, se “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”? Se tutto è così complesso e così mutevole?
Ad ogni modo, dove abitano gli uomini nei loro villaggi, con i loro animali e sui loro campi (e dove magari qualche volta pure qualcun altro ci può passare a fare delle camminate) è normale che le tigri ci vengano a loro rischio e pericolo perché ognuno ha diritto a vivere e a modo suo, ma vale il discorso dei topi: le tigri hanno diritto a uccidere e mangiare uomini e animali, gli uomini ad ucciderle per allontanarle dal loro territorio. Questa è la giustizia per chi nella Natura ci vive, anche se forse non per chi ne parla vivendo in città (ricordo il contadino che anni fa mi insegnò a potare gli olivi dire una volta “Ah, mi sta bene il ripopolamento dei lupi, ma che li liberassero dentro agli uffici dove lavorano loro” riferendosi agli animalisti) . Ciò a cui veramente non si ha diritto è sterminare le specie viventi fino a farle scomparire del tutto (come già per molte è successo senza alcuna necessità) negandogli la possibilità di esistere distruggendo l’ambiente in cui sono adatte a vivere. Questo è il vero problema, ed è una cosa che molti contribuiscono a fare anche indirettamente, senza accorgersene, ma seguendo uno stile di vita che, moltiplicato a livello di massa, ha conseguenze precise, come il colpo di falce sui fili d’erba.

Comunque sia oggi decido di prendermi un giorno di pausa in questa “trappola per tigri”, un giorno dedicato principalmente a lavare i miei vestiti e ad aspettare che si asciughino (non è una cosa breve) prima al vento e poi davanti alla stufa.

Dopo averli lavati me ne sto un po’ a guardare la famiglia della casa mentre piantano le patate sulle strette terrazze sottostanti. Hanno mucchi di letame secco e di terriccio portati con le gerle sulla schiena e rovesciati in lunghe file su ogni terrazza. L’uomo smuove la terra con la zappa, la moglie sparge il terriccio ed i ragazzi seminano i tuberi. Io li guardo seduto fuori casa mentre le mani mi si riprendono dall’acqua gelata ed una mucca scampanante mi pascola intorno.

Più tardi arrivano altri due trekkers, una coppia di studenti universitari della Repubblica Ceca che fanno il mio stesso percorso ed hanno trovato le mie tracce sul libro-conti del lodge precedente dove si son fermati anche loro.
Il loro paese sta per adottare l’Euro e parliamo, fra le altre cose, un po’ di questo. Lui dice che la moneta europea potrebbe aumentare ancora molto di valore se alcuni paesi petroliferi (l’Iran ne ha già parlato più volte) decidessero di quotare il loro petrlolio in euro. Gli dico che sarebbe la Terza Guerra Mondiale: gli USA non lo permetterebbero mai, troverebbero una scusa per fare una guerra, magari per la libertà di quotazione della valuta svincolata da qualsiasi dato reale o quant’altro – del resto l’Iran non a caso è già sotto tiro.
Si chiaccera un po’ fino a sera, fino all’ora di andare a dormire, che qui arriva molto presto: le 21 è già tirar tardi.

Intanto mi son messo d’accordo con Dawa, il più giovane dei due fratelli, per assumerlo come portatore del mio zaino solo per domani, giorno della tappa più dura: 1200 metri di dislivello in salita sulla neve. Mille rupie, undici euro circa, circa il doppio della giornata normale per un portatore, ma poi lui deve anche tornare indietro (anche se immagino che gli basteranno in un paio d’ore).