mercoledì 9 settembre 2009

Trekking in Helambu - 1



26-1-08
E’ proprio una bella fortuna che ho trovato questa casa, quasi un bar, quasi una locanda, in cima al villaggio di Mulkharka, l’ultima casa.
Una bella fortuna che hanno un letto su che possono lasciarmi. Loro, una famiglia di giovani sposi tamang con due bambini, dormiranno di sotto nel negozio, se cosi’ lo si puo’ chiamare. Perfetto! Loro ci guadagnano qualcosa ed io evito di ritrovarmi al buio lungo il sentiero.
Non solo, ma appena entrato nella stanza che fa da soggiorno, magazzino, cucina, da casa insomma, sento subito l’odore caratteristico della tungbha, la bevanda tradizionale delle genti di queste parti fatta di miglio fermentato alla quale sono particolarmente affezionato.
In realta’ ne e’ una variante, un distillato leggero che chiamano raksi o forse cosi’ dice il tipo di casa per farmi capire perche’ non e’ il classico raksi, distillato di riso nepalese molto forte, ma ne e’ una variante leggera, vagamente simile al sake’. Guarda caso lo stanno facendo proprio ora che arrivo e me ne fanno assaggiare un bicchiere tiepido. Cosi’ mi viene l’idea: me ne faccio scaldare un pentolino in modo da averne un po’ da bere caldo.


Mentre salivo per il sentiero stavo sudando ed, insieme ai miei pensieri lamentosi sulle mille cose, mi rimproveravo di aver portato con me tutta questa roba che rende lo zaino troppo pesante. Ma adesso, appena mi sono fermato, la vera temperatura esterna si manifesta, insieme alla stanchezza. E cosi’, subito, mentre comincio a parlare col pedrone di casa, mi sale il freddo e, uno dopo l’altro, devo indossare tutti gli indumenti che ho con me.

Il raksi caldo crea un certo senso di rilassamento e di aver trovato un posto dove stare , per un poco.

L’uomo e’ giovane, forse anche un poco piu’ della moglie, dall’aspetto. Sta facendo cuocere il miglio per fare il raksi su un fuoco di legna sotto una tettoia esterna sul retro della casa. Non lo beve, lo vende solo, dice, ma e’ una bevanda di cui fidarsi, non come quella roba che vendono giu’ a Kathmandu.
La casa all’interno e’ spoglia, il pavimento di terra liscia come anche le pareti, il focolare in un angolo, con questo disgraziato sistema himalayano che non prevede una uscita per il fumo. Il soffitto, di legno, infatti e’ tutto annerito: non c’e’ verso, il fumo deve trovare da se’ la sua via in qualche modo da sotto il tetto, e intanto la casa se ne riempie completamente, solo accucciati per terra ci si salva.
Mi hanno lasciato il piano (cioe’ la stanza) di sopra, dando una pulita al letto: tutto buono, non c’e’ da andare per il sottile, l’alternativa era un sentiero sconosciuto in discesa e al buio.
Di sopra ci andrò dopo, quando sarà il momento di dormire, intanto mi siedo fuori a scrivere, su un tavolo per i clienti del negozio-bar, l’unico del villaggio. A godermi l’ultima luce del giorno.
Ma non scrivo a lungo. Il mio ospite ha voglia di chiacchierare. Parla abbastanza Inglese: è nato in questo villaggio, ma è l’unico della sua famiglia ad esservi rimasto. Il padre morto otto anni fa, la madre risposata e le sorelle, sposate anch’esse, vivono chi altrove in Nepal e chi in India. Anche lui ha vissuto in India, a Delhi, Calcutta e Darjeeling dove ha studiato per due anni al college, dice, e intuisco una nota di rammarico: è un tipo sveglio, intelligente e capace di iniziativa, se avesse potuto studiare.....
Ha costruito questa casa tre anni fa: è diversa dalle altre del villaggio, tutta dipinta di verde, con una specie di balconcino tutto intorno alla stanza di sopra e con un bagno esterno pulito, tutto intonacato di cemento.
E sta studiando comunque. Oggi è a casa perché è sabato (giorno festivo in Nepal, dove la domenica è lavorativa), ma durante la settimana va tutti i giorni a Kathmandu per due mesi. Fa un corso di lingua coreana, organizzato dall’Ambasciata della corea del Sud per coloro che vogliono andare a lavorare lì: se uno passa gli esami con un buon punteggio ottiene il visto gratis e viene inserito per i posti di lavoro disponibili.
Mi fa vedere il libro degli esercizi con i caratteri coreani e mi dice che per i numeri grandi usano i caratteri cinesi, “come voi italiani usate per scrivere l’alfabeto inglese”.
Non posso fare a meno di puntualizzare che, sebbene gli Inglesi (come i loro figli storici, gli Americani) abbiano negli ultimissimi secoli dominato il mondo, sono semmai stati loro a prendere l’alfabeto da noi dato che quando loro erano ancora delle orde barbariche venute dalle steppe da noi c’era già da secoli una fiorente civiltà..... così come c’era già da un bel po’ nell’India (che arrivava allora fino a qui) al tempo in cui noi ancora accendevamo il fuoco coi legnetti.

Comunque intanto si è fatto buio e, a proposito di fuoco, ci spostiamo proprio sotto casa a scaldarci con quello che i contadini che lavoravano il campo vicino hanno appena lasciato.
Il tipo lo ravviva con degli sterpi e mi dice di non metterci i pezzi di legno più grandi ché non sono i suoi.
Mi chiede dell’Euro e dell’Unione Europea e via via si parla – in un Inglese superficiale - della probabile fine della monarchia e dell’ascesa dei Maoisti in Nepal, del pericolo che le promesse elezioni siano di nuovo rimandate, dei politici che in tutto il mondo mentono e mangiano sempre, delle tigri che invece, dice lui, qui non fanno male a nessuno, solo alle capre, e poi dei telefonini che ormai nel villaggio ce l’hanno tutti, che qui è l’ultimo posto dove prendono la linea prima delle montagne, e che a Kathmandu vendono quelli cinesi a 15 euro e ancora dei campi e della vita in città e nel villaggio.
Chiacchiere sul mondo in quest’aria fredda e qualche goccia di pioggia, con le braci rimaste che rischiarano l’oscurità vicina e le luci della valle di Kathmandu che popolano quella lontana.

Alle 20.00 torna la luce (che in tutto il Nepal, dove c’è e compresa la capitale, è razionata, a orari – chi dice a causa del congelamento invernale di alcuni dei bacini delle centrali idroelettriche, chi perché il governo vende sottobanco l’energia all’India...) e si mangia. Riso freddo e dhal (lenticchie) con due uova fritte sopra fredde pure quelle ( non c’è problema: vale sempre il discorso dell’alternativa, come sopra) ed un’altra ciotola di raksi caldo.
Pur nella estrema semplicità della casa - dove tutto si fa per terra, secondo l’uso locale – non manca una tv a colori con lettore dvd ed un frigorifero, portati quassù a spalle da un portatore.
Non si fa tardi la sera a Mulkharka, alle 21.30 siamo a letto.
Anche il pavimento di sopra è in terra, sopra le assi annerite dal fumo; alle pareti qualche poster di attori indiani di Bollywood, Shah Rukh Khan appostato su una moto da corsa con la faccia da duro e qualcuno di quei paesaggi tipo campagna svizzera che piacciono tanto agli indiani adornati con frasi quali “The highest wisdom is kindness” oppure “If better is possible, good is not enough”.

Nel sacco a pelo, sotto la trapuntona, guardo il soffitto, tetto in lamiera zincata sul quale corre un ratto di tanto in tanto e penso al mio ospite, nato e vissuto in questo villaggio di montagna, che prepara di sotto il suo esame di coreano per trovarsi tra un po’ ogni giono al lavoro in una fabbrica di Seoul..

(By the way, preparando il sacco a pelo, ho trovato un coltello sotto il cuscino – e lui ha rifatto il letto poco prima – ma non credo sia per avercelo già lì pronto quando viene a sgozzarmi stanotte: mi sembra un buon tipo e poi, se mai se lo portava da sotto – che questo neanche è affilato!).


27-1-08
Arrivato a Chipling. Ling in tibetano significa luogo. Non so se Chipling significhi “luogo in cima”, ma sarebbe più che appropriato.
Erano proprio quelle quattro case che si vedevano già da un pezzo sulla cresta estrema della montagna che veniva da chiedersi come fosse venuto in mente a questa gente di abitare in un posto che più esposto ai venti non si può.
Anche la famiglia di questo lodge è tamang, e la discendenza dalla stirpe di Gengis Khan che qualcuno attribuisce ai Tamang si addice bene al padrone di casa i cui baffoni e il cui cipiglio non avrebbero sfigurato affatto tra la schiatta del grande conquistatore mongolo.
Spero almeno che il freddo notturno che il luogo promette induca i ratti locali a più miti consigli rispetto a quelli della notte scorsa che hanno imperversato lungo le travi del tetto sopra di me e mi sa pure sopra il letto stesso una volta.
Nel grande gioco della Natura c’è posto per tutti, per carità, e tutti hanno diritto a fare la loro vita nel modo che gli è proprio. Così i ratti: non gli nego certo il diritto di mangiarmi il cibo e di scorrazzarmi addosso di notte, ma sono certo che loro sanno bene che ho anch’io il mio, di mettergli in giro un po’ di veleno, come faccio, almeno a casa mia.

Stamattina la giornata era partita bene, come parte in genere una giornata, molto prosaicamente, al bagno.
Accucciato sul cesso “alla turca” (chissà perché lo chiamano così? E’ usato da tutti i popoli del mondo – almeno da chi ce l’ha – tranne noi Occidentali e non si può dire che i Turchi siano stati il primo popolo extraeuropeo con cui noi italiani siamo enrati in contatto; forse il primo di cui abbiamo usato i servizi igienici? Sono quei misteri che in genere gli storici non si occupano di svelare..... la storia delle ibridazioni tra le usanze igienico-sanitarie tra i popoli. Eppure sono cose che hanno la loro importanza, basti pensare all’annoso luogo comune sugli Inglesi che non usano il bidet o alla diatriba Oriente-Occidente a proposito dell’uso dell’acqua o della carta igienica, al dare o meno la mano sinistra ecc...).
Bé, comunque, accucciato appunto lì, in uno di quei momenti che, dato lo stato di attesa, permettono alla mente di sospendere per un momento l’abitudine alla ricerca di una apparente certezza sullo stato dell’arte della nostra coscienza seguendo costantemente un filo logico (che poi, se lo seguissimo davvero, vedremmo che in realtà va un po’ a vanvera dove gli pare) osservavo la parete tirata a cemento di fronte a me e notavo che era fatto con particelle di sabbia più grandi e conteneva qua e là granelli più luccicanti.
In Italia una gettata di cemento avrebbe avuto un aspetto un poco diverso. Anche nella superficie più anonima ed uniforme, irriconducibile ad alcuna particolare cultura o tradizione materiale, appare la diversità del mondo: se il cemento è industriale e potrebbe forse essere lo stesso ovunque, c’è pur sempre la sabbia che dice della terra, del territorio dove si sta, oltre agli stili locali dei muratori.

Dopo un té con qualche biscotto ho salutato la famiglia e son ripartito. Non ho neppure chiesto il loro nome, ora che ci penso, e neanche loro hanno chiesto il mio.... ma non ce n’era bisogno: siamo tutti esseri umani, e tutti di passaggio nelle nostre vite reciproche.

All’inizio un paio d’ore di salita, ma l’ho sopportata meglio di ieri, forse perché sono entrato nello spirito del trekking, mentre ieri ancora la giornata era cominciata nella confusione e nelle relative comodità di Kathmandu. Forse perché ho già visto ieri come funzionano gli stati d’animo: se il cammino è faticoso la vita è cattiva, hanno la precedenza i pensieri negativi e mentre ce n’è uno altri già stanno facendo la fila. Quando il sentiero permette di procedere tranquillamente la vita non è poi così male e questo trekking potrà essere una bella esperienza dopo la quale ho già alcune buone idee sul da farsi.
E poi, a parte tutto, c’è anche la realtà, quella esterna, l’ambiente, le montagne per le quali sto camminando. E questo a volte è potente.

Ci sono momenti in cui la bellezza acceca i pensieri,
li zittisce
e rimangono solo le foglie degli alberi
coperte di neve

Sì, infatti intanto è comparsa la neve, caduta durante la notte. Non tanta, a tratti, ma sufficiente a richiedere attenzione quando, scavalcato il primo passo, il sentiero comincia a scendere, ci sono scalini di pietra ed è facile scivolare, se la neve è un po’ più ghiacciata (cosa che mi capita ben presto, per fortuna senza conseguenze).

Dopo qualche ora, sosta per una tukpa (zuppa tibetana) a Chisopani dove incontro Nicola, un ragazzo toscano e due canadesi.
Questi il contrario del primo: stanno facendo trekking da due mesi sulle montagne nepalesi, prima venti giorni in Annapurna, poi una settimana di sosta sul lago di Pokhara, ed ora altri venti da queste parti. Vengono ora dal Langtang ed hanno superato il passo del lago di Gosaikund con la neve che gli arrivava alla vita ed una bufera di vento gelido. Canadesi: ben attrezzati ed abituati al freddo.
Nicola è partito un giorno prima di me per il mio stesso itinerario – molto più facile – dell’Helambu; ha passato la notte a Chipling (dove mi trovo io ora che scrivo) e stamattina era partito per Kudumsang (la tappa successiva), ma dopo un’ora e mezza di cammino su una neve di pochi centimetri si è ritrovato con le sue scarpe poco adatte ed i pantaloni leggeri di cotone tutti fradici, troppo infreddolito, e ha deciso di abbandonare. Ora sta tornando indietro e vuole essere a Kathmandu per stasera in una buona stanza e sotto una bella doccia calda. E credo che ce la farà: dai tempi che mi dice sulle tappe pare che cammini veloce e del resto ha uno zaino leggero – è appunto per questo che deve tornare: non ha portato con sé i vestiti necessari.
E’ un peccato che torni indietro, avremmo fatto lo stesso percorso, è un ragazzo simpatico e credo sarebbe stato un buon compagno di viaggio. Ci pensa anche un po, ma poi rimane della sua decisione.
In fondo il trekking gli serviva per passare una settimana prima del volo per Delhi: vuol tornare presto in Himachal Pradesh, nella valle di Parvati. “Qui in Nepal” si lamenta “il fumo non e’ buono. Si’, quando sei in Italia puo’ anche andare” dice “ ma quando ti abitui al charas quello vero.... è un’altra storia!”.
Il tempo che ci mettono a preparare sia la mia tukpa (e’ una zuppa semplice, l’ho chiesta proprio per fare presto) che il dhal bhat (riso con lenticchie e curry) dei canadesi mi fa pensare ad una strategia per indurci a fermarci qui per la notte, dato che hanno anche le stanze, ma è ancora presto e finalmente ripartiamo, Nicola e i canadesi verso Kathmandu ed io per i prossimi villaggi.

Il sentiero prosegue – per la serie “La vita è bella” – abbastanza ampio e pianeggiante per un’ora e mezza e poi... cominciano i guai. Dopo un gruppetto di case con un piccolo stupa parte un tortuosissimo sentiero ripido in salita. Un’autentica “appettata”, come l’avrebbero definita i miei genitori quando ci portavano in montagna a mio fratello e a me da piccoli (ho mandato un sms a mia madre stasera - mio padre non puo’ riceverne più purtroppo – per ringraziarli di questo: chissà se sarei qui ora se non lo avessero fatto?).

Lo dicevano anche la guida Lonely Planet, Nicola e i canadesi: prima di Chipling c’è una bella “ appettata” (anche se ognuno lo diceva in un modo diverso).
All’inizio del sentiero c’è un piccolo lodge-negozio dove compro una bottiglia d’acqua da una ragazza dalla carnagione molto chiara e dai tratti molto cinesi. Il prezzo è più del doppio che a Kathmandu, ma li posso capire: qui ogni cosa bisogna portarcela a spalla e... va bene che sono gli Sherpa dell’Helambu, ma le cose pesano uguale.
Incomincio la salita. Mi fermo varie volte per mettermi e togliermi la giacca a vento, secondo che il sentiero è più o meno esposto. Ad un certo punto mi metto gli auricolari ed accendo l’Ipod: in certi casi ci vuole quel po’ di carica in più che la musica può dare.
Mi muovo tra strisce strettissime di terreno terrazzato, ma su un fianco così ripido della montagna che sono più alti i muretti di pietre che le sostengono di quanto siano larghe le strisce. Ogni tanto c’è un contadino che ci spinge sopra un aratro di legno attaccato ad un bufalo, bambini smocciolanti che giocano portando al pascolo poche capre, una vecchia con un grosso anello d’ottone che le attraversa il naso che fuma seduta sul sentiero sghignazzando con un’amica.
In questo contesto mi serve qualcosa che abbia lo spirito di quando anche l’Italia era contadina, di quando anche da noi si terrazzava tutta la terra utile in montagna, mi serve la musica e l’energia che nascevano da questa fatica, da questa necessità, da questa realtà: metto “Taranta Power” di Eugenio Bennato e vado su, per la salita.

E’ un piede dopo l’altro, sempre in diagonale, a zig-zag rispetto al sentiero per addolcirne la pendenza; si allunga la strada così, ma ci si fa anche amicizia. Ed è meglio perché è una compagna che chiede molto. Ci sarebbe la voglia di rinunciare, lo zaino è pesante, ma per tornare indietro è troppo tardi a questo punto e ci sono quelle quattro case lassù in cima (ma che ce le hanno messe a fare proprio lì?) che sono un po’ una minaccia e un po’ una promessa. E poi la Montagna cos’è se non vincere contro noi stessi? Contro il nostro proteggerci dalle fatiche necessarie comuni a tutti in Natura? Contro il nostro sottrarci alla Vita, in fondo?
Andiamo in montagna per un motivo qualsiasi o anche senza un vero motivo e quando siamo lì, proprio nel punto più brutto, sappiamo che siamo lì per quello, per combattere, per imparare che non c’è via di fuga nella vita: c’è solo un passo dopo l’altro.
Chi ce la fa può farli dritto per dritto, magari dentro un metro di neve, come i due canadesi, c’è chi li fa cambiando destinazione, come Nicola, io li faccio in diagonale, di traverso, a zig-zag, ricamando “non a destra” e poi “non a sinistra”, corregendo e contraddicendo, cambiando sempre approccio, cambiando via d’accesso, mai in modo unilaterale, vedendo i due aspetti, senza puntar dritto né mai perdere di vista la meta alla quale sto andando.

Ed eccomi dunque adesso qui a Chipling, sul terrazzino di una di queste quattro case di pietre ed assi da questa famiglia tamang a riscaldarmi con una tazza di té col latte e tanto zucchero, che sa un po’ di fumo di legna come certamente tutta la cucina dove l’hanno preparata.
Inizio a scrivere queste note in fretta, con l’ultimo sole, ma potrò continuare poi in stanza - dopo la cena col solito dhal bhat quasi freddo – grazie alla lampadina alimentata da un inaspettato pannellino solare caricatosi pazientemente durante questa giornata di lento cammino.


28-1-08
Oggi è la prima giornata di sole, cielo terso e la prima vista delle montagne alte e innevate.
Faccio colazione nell’aia su un tavolo di legno sistemato sotto il lungta, l’alta bandiera verticale con le preghiere buddhiste scritte sopra secondo l’uso tibetano, mentre il baffuto padrone di casa ed alcuni amici si godono il sole giocando a carte sul prato dietro di me.

Dopo colazione riparto, un po’ di salita e dopo un paio d’ore incontro tre viandanti locali seduti fuori da una casa-negozietto ed uno di loro che beve una Coca-Cola mi fa cenno di sedermi a berne una anch’io., ma declino l’offerta e proseguo. “Caro amico” penso tra me e me ”tu conoscerai queste montagne, ma io conosco la Coca-Cola: ti dà un momento di piacere e subito dopo hai più sete di prima” e per me non è certo il caso, dato che non mi porto neanche una scorta d’acqua per non gravare il peso – tanto ogni qualche ora si trova sempre un villaggio.
Poi il sentiero scende su un piccolo insediamento, Gul Bhanjyang, dove vedo alcune donne tamang intente alle loro occupazioni quotidiane, ma così tipiche, così “etniche” con i colori dei loro vestiti e gli ornamenti, che rimpiango per un po’ della salita di non aver avuto la sfacciataggine di fotografarle incurante se fossero d’accordo o meno. Perdo molte belle immagini da portare a casa per questa forma di rispetto (o di timidezza?), però come si fa a passare da totale straniero per un villaggio dove tutti sono abituati a conoscersi da generazioni ed hanno le loro usanze antiche nell’interagire e marcare il reciproco spazio e rispetto e, senza neanche fermarsi a prendere un té e far due chiacchiere, sguainare la macchina fotografica e carpire abusivamente l’esotico che troviamo nel quotidiano altrui?
Alla fine mi consolerò comprando un bel libro fotografico a Kathmandu; quelli li fa gente che viene qui apposta, magari ci stanno mesi nei villaggi, probabilmente si mettono d’accordo e pagano per fare le foto – e infatti trovano sempre l’immagine ideale, chissà come fanno? – oppure, non lo so, se hanno il pelo sullo stomaco di fotografare di prepotenza..... io non ce l’ho - e non ho neanche un teleobiettivo di quelli da portare a spalla.
Ma ben presto le autocondanne e le autoapprovazioni si mostrano essere un lusso che la coscienza non può permettersi mentre la fatica della salita la richiama alla sua unità con il corpo. Ed è di nuovo un passo dietro l’altro sul sentiero ripido, peggio di ieri, che ora a tratti si distingue e a tratti no, e bisogna indovinarlo e non confonderlo col percorso semiasciutto del torrentello formato dalla neve sciolta.
Passo per qualche rifugio di pastori abbandonato, per qualche lodge chiuso nella bassa stagione, ogni tanto. E lo spiazzo davanti, fatto per dar spazio alle tende dei trekkers, e’ un breve momento di pace orizzontale con un po’ d’erba per terra e l’immensa sconfinata vista tutt’intorno.

Le cime lontane con la neve, intatte, che sempre aspettano più su, e le montagne terrazzate, scolpite dalla testarda tenacia contadina appena superate. Le bandiere di preghiera tibetane punteggiano come lunghi rosari il perimetro dello spiazzo e convergono al centro sulla punta di quella alta.
Vien sempre spontaneo un inchino a queste bandiere che rappresentano l’Insegnamento grazie al quale sappiamo che a questo momento presente ci possiamo inchinare..... senza un perché.

Fatica... fatica... continua a salire questo sentiero e se c’è un bivio non ci si può sbagliare: quello giusto è sempre quello più in salita, che va più su proprio verso la cima, non quello che la aggira.
Sempre avanti, sempre dritto dunque. Anzi no, a zig-zag, altrimenti la cima non sarà rotonda.

Dopo tanta fatica,
superato il passo,
una immensa soddisfazione
.... ed andare oltre
(ed oltre ed oltre ed oltre ancora un pò
Ky Ky So So Largyalo! )

La cima e’ una punta? Nella nostra mente, e forse nella forma dlla roccia, ma la cima è l’immenso spazio, la visione totale, a 360 gradi, e quella lascia senza parole: contiene il passo per il verso e il passo di traverso.


Finita!!
Ora si scende, lentamente: un po’ di neve, attenzione sulle rocce e foresta di rododendri e querce himalayane tutt’intorno.
Pian piano arrivo al nuovo villaggio: Kutumsang, il primo che appartiene alla comunità Sherpa , il popolo più montanaro del mondo, una specie di aristocrazia delle rocce, del freddo, del vento, della neve e dei sentieri scoscesi, di gran carichi sulle spalle, tutto portato con energia, grande dignità ed allegria.
Punto subito quella che già da lontano sembra la casa più ben tenuta delle altre, “Namaste Lodge”: benissimo!
Mi accoglie un vecchio con tre denti e trecento anni (apparenti), ma ancora energico: mi mostra una stanzetta col pavimento di legno e due grandi finestre che guardano le montagne e mi ingiunge di aspettare di sotto in una specie di sala da pranzo mentre lui se ne va, probabilmente a chiamare qualcuno che parla un po’ d’Inglese. Infatti di lì a poco arriva un ragazzetto di quelli con l’aria che la sanno lunga, o che più che altro sono abituati a relazionarsi con giovani backpackers – immancabilmente con l’aria di saperla lunga.
Parla Inglese abbastanza bene, mi dice che la stanza è gratis se mangio da loro (è una cosa abbastanza frequente qui in montagna) e che hanno pure la doccia calda con i pannelli solari.
Non ci voglio credere!!! Neanche nella guest house dove stavo a Kathmandu riuscivo ad averla con certezza: voglio accertarmi di quanto sia effettivamente “calda”.
Be’, diciamo che lo è sufficientemente e soprattutto che di una doccia ne ho proprio bisogno, per cui entro nel cubetto di cemento che la contiene e comincio a spogliarmi. Mai avrei creduto poco fa, mentre sull’ultimo tratto di sentiero ventoso aumentavo gli strati di copertura, che di lì a poco mi sarei spogliato completamente in mezzo a queste montagne, ma “la vida te da sorpresas” e una bella doccia e vestiti puliti bastano spesso a cambiarti in un attimo la percezione della vita.
Basta così poco? Direi, in realtà spesso sì, nel bene e nel male.
Dunque mi spoglio: con fiducia (più o meno) che arrivi questa benedetta “acqua calda”.

Dopo la doccia qualcosa per scaldarmi dentro.
Neanche qui fanno la tungbha. Hanno pero’ il chang (un’altra bevanda locale simile) che qui fanno col mais a differenza di quello che trovavo in Ladakh, dove lo fanno con l’orzo.
Gliene chiedo una tazza calda e mi invitano a sedermi con loro in cucina davanti alla stufa bassa e lunga tipica degli Sherpa e simile a quelle usate anche in Ladakh, solo che qui non sono decorate. Come anche lì la cucina è una stanza lunga e piuttosto buia con una lunghissima credenza in legno stracolma di piatti, bicchieri, pentole ecc... molti di alluminio, qualcuno di rame. C’è anche un letto in fondo dovee dormono i coniugi di casa.
Il vecchio che mi ha accolto mi sorride, gli sto simpatico; non ci possiamo parlare, ma possiamo condividere il calore della stufa, che intanto scalda pure le tazze di chang che ci abbiamo appoggiato sopra.
Il figlio del vecchio, padre del ragazzo, è un uomo magro, alto e asciutto, col classico berretto nepalese a semicono ma nero in questo caso. Contadino e liutaio: costruisce i Tam Gnin, i piccoli mandolini sherpa a quattro corde (due singole ai lati e una coppia al centro). La musica sherpa non è che mi entusiasmi onestamente, ma l’oggetto sì, ne ha alcuni appesi al soffitto e me ne fa vedere uno. Piccolo e leggero il Tam Gnin è tutto decorato con i simboli tibetani di buona fortuna ed ha l’estremità dove si tirano le corde intagliata a forma di testa di drago: continuerò a mirarlo e rimirarlo fino a chiedergli se me ne vende uno e ad aumentare così ancora un po’ il mio carico (se mai ce ne fosse stato bisogno).
La moglie è una di queste meravigliose donne sherpa: belle, forti, aperte, cordiali, allegre e dignitose, all’occorrenza anche dure, decise, sempre in attività, sempre a lavorare e sempre pronte a sorridere e cantare, come anche a stare in silenzio davanti al fuoco. Con i loro occhi mongoli ed i lunghissimi capelli neri per me incutono rispetto, ammirazione e desiderio nello stesso momento. Son tanto brave a stare al loro posto quanto a tener gli altri al loro e al tempo stesso sono gioviali ed accoglienti.
Una benedizione per i loro uomini.
Il resto della famiglia e’ composto dai due ragazzi presenti (quello di prima ed uno più giovane che, visto il mio zaino, mi si offre come portatore) e due altri figli assenti: una figlia sposata che vive col marito nella regione contigua del Langtang ed maschio più grande che studia come lama nel monastero dell’insediamento dei rifugiati tibetani di Bylakuppe, vicino Bangalore in Karnataka, sud India, dove c’è una specie di grande università buddhista.
L’interesse per lo strumento musicale e qualche nota suonata dal mio ospite mi induce ad andare in stanza a prendere il mio flauto traverso che ho nello zaino e fargli dunque vedere lo strumento che suono io, fargli sentire qualche melodia anche, italiana o giù di lì.
Il flauto riscuote un certo interesse: tutti cercano un po’ di suonarlo – il che , ovviamente, all’inizio non riesce tanto bene, diciamo, appena un po’ meglio dei miei accenni col tam gnin.
Andiamo avanti un po’ dopo cena, fra suoni e parole sotto il soffitto affumicato mentre i ragazzi tagliano a strisce da mettere poi a seccare sopra la stufa un pezzo di carne di bufalo che hanno appena comprato da gente di un vicino villaggio tamang. “Noi” dicono “siamo buddhisti e non uccidiamo animali”: li comprano macellati dai Tamang, anch’essi buddhisti, ma ad un gradino più basso nell’aristocrazia della montagna.
Ad un certo punto i due coniugi semplicemente cominciano a prepararsi per andare a letto, nella stessa stanza dove stiamo ancora chiacchierando i ragazzi ed io, e così mi pare il caso di andare anch’io a dormire.

La notte passa abbastanza bene, il freddo non lo soffro, anche se il chang è una bevanda in fermentazione, il che, un po’, non manca di farsi sentire....


29-1-08
Kutumsang è poche case su una cresta che sale su per la montagna e molti campi terrazzati semiverticali (be’, non proprio, però piuttosto ripidi) su entrambi i versanti.
Kutumsang è il nome che il governo nepalese o i suoi redattori di mappe hanno messo al villaggio il cui nome sherpa è in realtà Taa Kor che significa “il posto delle trappole per tigri” (più o meno) perché una volta (ora non più) c’erano qui molte tigri e la gente si difendeva con le trappole. Così bene che ora non ce ne sono più – e francamente (con buona pace degli animalisti di città) direi pure per fortuna dato che ci tengo anch’io che le tigri non scompaiano, ma che insieme a loro rimangano foreste e montagne disabitate che possano essere un buon habitat per loro ed eventualmente vasti parchi nazionali per noi dove possiamo anche andare a vederle eventualmente, ma sapendo di andare a casa loro e attrezzandoci di conseguenza. Come potrebbe anche trattarsi benissimo di zone del tutto lasciate solo a loro e ad altri animali selvatici perché non sta scritto da nessuna parte che ogni luogo debba essere esplorato, ogni cosa “conosciuta” – che poi quale ambiente possiamo davvero conoscere, se “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”? Se tutto è così complesso e così mutevole?
Ad ogni modo, dove abitano gli uomini nei loro villaggi, con i loro animali e sui loro campi (e dove magari qualche volta pure qualcun altro ci può passare a fare delle camminate) è normale che le tigri ci vengano a loro rischio e pericolo perché ognuno ha diritto a vivere e a modo suo, ma vale il discorso dei topi: le tigri hanno diritto a uccidere e mangiare uomini e animali, gli uomini ad ucciderle per allontanarle dal loro territorio. Questa è la giustizia per chi nella Natura ci vive, anche se forse non per chi ne parla vivendo in città (ricordo il contadino che anni fa mi insegnò a potare gli olivi dire una volta “Ah, mi sta bene il ripopolamento dei lupi, ma che li liberassero dentro agli uffici dove lavorano loro” riferendosi agli animalisti) . Ciò a cui veramente non si ha diritto è sterminare le specie viventi fino a farle scomparire del tutto (come già per molte è successo senza alcuna necessità) negandogli la possibilità di esistere distruggendo l’ambiente in cui sono adatte a vivere. Questo è il vero problema, ed è una cosa che molti contribuiscono a fare anche indirettamente, senza accorgersene, ma seguendo uno stile di vita che, moltiplicato a livello di massa, ha conseguenze precise, come il colpo di falce sui fili d’erba.

Comunque sia oggi decido di prendermi un giorno di pausa in questa “trappola per tigri”, un giorno dedicato principalmente a lavare i miei vestiti e ad aspettare che si asciughino (non è una cosa breve) prima al vento e poi davanti alla stufa.

Dopo averli lavati me ne sto un po’ a guardare la famiglia della casa mentre piantano le patate sulle strette terrazze sottostanti. Hanno mucchi di letame secco e di terriccio portati con le gerle sulla schiena e rovesciati in lunghe file su ogni terrazza. L’uomo smuove la terra con la zappa, la moglie sparge il terriccio ed i ragazzi seminano i tuberi. Io li guardo seduto fuori casa mentre le mani mi si riprendono dall’acqua gelata ed una mucca scampanante mi pascola intorno.

Più tardi arrivano altri due trekkers, una coppia di studenti universitari della Repubblica Ceca che fanno il mio stesso percorso ed hanno trovato le mie tracce sul libro-conti del lodge precedente dove si son fermati anche loro.
Il loro paese sta per adottare l’Euro e parliamo, fra le altre cose, un po’ di questo. Lui dice che la moneta europea potrebbe aumentare ancora molto di valore se alcuni paesi petroliferi (l’Iran ne ha già parlato più volte) decidessero di quotare il loro petrlolio in euro. Gli dico che sarebbe la Terza Guerra Mondiale: gli USA non lo permetterebbero mai, troverebbero una scusa per fare una guerra, magari per la libertà di quotazione della valuta svincolata da qualsiasi dato reale o quant’altro – del resto l’Iran non a caso è già sotto tiro.
Si chiaccera un po’ fino a sera, fino all’ora di andare a dormire, che qui arriva molto presto: le 21 è già tirar tardi.

Intanto mi son messo d’accordo con Dawa, il più giovane dei due fratelli, per assumerlo come portatore del mio zaino solo per domani, giorno della tappa più dura: 1200 metri di dislivello in salita sulla neve. Mille rupie, undici euro circa, circa il doppio della giornata normale per un portatore, ma poi lui deve anche tornare indietro (anche se immagino che gli basteranno in un paio d’ore).

Trekking in Helambu - 2

30-1-08
Ok, dunque stamattina si parte per la tappa più lunga e più tosta.
Si tratta di arrivare a Tarepathi, 3600 mts, partendo da 2400. Il cielo è piuttosto nuvoloso, ma il ragazzo dice ok, non c’è problema, si può andare.
Lui però è un po’ troppo giovane e vuole comunque guadagnarsi le mille rupie; io vorrei un parere più affidabile e chiedo (tramite traduzione) al nonno come gli sembra il tempo dall’alto della sua lunga esperienza. Ma il vecchio mi dà in effetti una risposta adeguata alla saggezza che mi aspettavo, sebbene non quella che avrei voluto: “... e io che ne so?” mi dice.
In effetti a quest’altezza il tempo è così “unpredictable”, come dice più volte anche la guida Lonely Planet, che da un momento all’altro tutto può cambiare, che ci siano le nuvole o il sereno.
E, detto ciò, si saluta e si parte.

Ma questa è una giornata di neve (che continuerà a cadere copiosa quasi sempre) e con ciò dominata dal silenzio che la neve stende sempre come un manto soffice sul mondo. Quindi preferisco lasciare spazio solo a delle immagini e a qualche aiku che fissavo sulla carta mentre Dawa, il mio portatore quindicenne, mi aspettava pazientemente probabilmente chiedendosi “ma che ci’avrà da scrivere questo invece di camminare?”.






(scusami portatore che mi aspetti, ma....)
Gli aiku sono come le fotografie:
istantanei!
Vanno scritti subito






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Nevicata.
Ogni fiocco e’ un aiku
in un bianco poema
di silenzio








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Inverno in montagna.
Sotto il manto di neve
affidati al tuo passo








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Rami nella nebbia
Bianchi di neve
Siete tesi o sospesi
su quest’incanto?






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Di fiocco in fiocco,
neve,
coprilo tutto questo mondo indaffarato
.... e che ci pensi un po’ su







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Paesaggio innevato.
Nel silenzio del bianco
ogni forma ha la luce
del linguaggio







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Ogni ramo e’ un simbolo
se gli fa da sfondo
la neve






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Nebbia
Nebbia
Nebbia.
Che altro dire?






Trekking in Helambu - 3




31-1-08
La notte è stata dura: freddo e difficoltà a dormire, come capita spesso a causa dell’altitudine.
Ma la mattina veramente una gran vista delle montagne all’alba.

Veramente ho approfittato della presenza di una guida nepalese che ha svegliato il suo cliente tedesco che dormiva nella stanzetta accanto alla mia per dirgli di alzarsi e non perdersi la vista delle montagne perché presto le nuvole sarebbero salite dalla valle e le avrebbero coperte (in effetti può anche capitare da queste parti di passare giornate intere sotto queste cime altissime e non vederle mai).
Così anch’io mi sono alzato, sfidando il freddo (questa guida diceva -22 gradi, ma a me pare un po’ troppo) che tanto avrei dovuto affrontar comunque dopo un po’, e decisamente ne è valsa la pena.

Ancor più importante la presenza di questa guida è stata per il percorso di oggi da Tarepathi a Malemchigaon perché il sentiero, tutto ripido e in discesa dentro al bosco, sarebbe stato impossibile da individuare dopo la nevicata di ieri, con la neve che arrivava a mezza gamba. Per cui devo ammettere che solo seguendo le tracce lasciate dal tedesco e la sua guida – partiti prima di me - ho potuto raggiungere la meta di oggi ché altrimenti sarebbe stato impossibile e sarei dovuto rimanere minimo un giorno in più nel lodge di Tarepathi – il cui gestore peraltro mi stava pure piuttosto antipatico, per non parlare del freddo e dell’altitudine. Per cui, grazie alle guide e ai tedeschi che le pagano!



La discesa è stata una specie di estasi fotografica in cui me la sono presa molto comoda fermandomi mille volte, anche se brevemente, a godermi il paesaggio ed i particolari delle forme che alberi e foglie prendevano con la neve e a cercare di fissarli nelle foto.
Scendere nel bosco con la neve alta senza vedere cosa c’è sotto significa stare sempre molto attenti a dove e come si mettono i piedi e spesso anche scivolare. Per cui è stata una giornata molto concentrata, molto fisica, della quale non mi rimane molto da mettere in parole.
Per cui anche per oggi lascio spazio alle immagini e ancora a qualche aiku.











Il sentiero è sommerso
Bisogna scavarlo nella neve
Come il motivo per cui sono qui




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Un passo più lento.
E’ la riccheezza che voglio permettermi:
Adesso!





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Potrebbe essere anche tardi,
ma voglio fermarmi ancora
a scrivere un aiku
sotto i fiocchi di neve.






Trekking in Helambu - 4

1-2-08
Rimango a Malemchigaon. C’è una celebrazione di tre giorni (oggi è l’ultimo) al gompa (tempio buddista tibetano) di commemorare e preghiera per un uomo in occasione di un anno dalla sua morte. Si usa celebrare dopo tre giorni, dopo sette, dopo quarantanove e dopo un anno. La famiglia offre cibo e bevande a fa fare puje (cerimonie) in continuazione per tre giorni. E’ una grande festa e dicono che succede in media una ventina di volte all’anno quindi abbondantemente più di una volta al mese.
L’uomo che viene ricordato oggi è morto in India. Molta gente di questo villaggio va in India per lavorare, chi a costruire case e qualcuno anche è proprietario di negozi in Ladakh.
Il lodge dove mi trovo appartiene ad un uomo senza figli (grande sventura da queste parti) che dice di essere l’attuale capo del villaggio, ma più tardi vengo a sapere che lo è solo secondo la fazione maoista mentre quello legittimo sarebbe un altro; situazioni che probabilmente si ripetono spesso in questo Nepal in attesa di elezioni che chissà se davvero arriveranno ad aprile come hanno promesso ed in fase di passaggio da monarchia a repubblica parlamentare.

Faccio un giro al gompa a vedere che succede e se posso fare qualche foto perché l’occasione è ghiotta.
Come mi affaccio alla porta del tempio mi invitano a sedermi con loro e dopo un po’ inizia la puja. Per tutti e tre i giorni ne fanno in continuazione, con qualche pausa in mezzo per chiacchierare, bere té salato al burro (il té tibetano) e chang o raksi (alcoolici locali).
Stranamente il lama che conduce le preghiere non ha i vestiti da monaco: infatti non lo è; è un lama laico, un “family lama”, come dicono e come sono tutti i lama di questi villaggi: hanno famiglia, bevono alcoolici e fanno tutto come gli altri. Questi villaggi sherpa seguono il lignaggio dei Niyngmapa, il più antico nel buddhismo tibetano, e in questa tradizione la condizione intermedia tra monaco e laico non è troppo strana.
La festa rimarrà per me una cosa difficile da dimenticare: grandi fuochi con enormi ceppi di legna portati a spalla fino allo spiazzo davanti al gompa, con un sacco di gente intorno, chi è seduto a chiacchierare o a mangiare, chi distribuisce riso da enormi pentoloni, chi gira a offrire té o chang e raksi.

E poi ci sono i momenti in cui tutti cantano e pregano sia fuori che dentro al gompa con questi lama che non si capisce quali sono e quali no. E infine la sera le danze intorno al fuoco cantando e senza musica tranne il tempo cadenzato da un tamburo.
Un semicerchio, un tratto di uomini ed uno di donne, che si tengono con le braccia dietro la vita e girano inorno facendo ogni tanto un passo avanti o uno indietro.
Quasi tutti parlano sufficientemente Inglese, specialmente insegnanti e studenti della scuola locale che ha anche un ostello per i villaggi dei ragazzi circostanti ed è sponsorizzata da una ONG inglese.

Durante il pomeriggio conosco l’insegnante-direttore della scuola: ha l’aspetto di una bella persona, intelligente e “di buona volonta’”. La sua è una storia interessante e, direi, edificante: era giovane e studiava per diventare ingegnere civile; una volta è passato per questo villaggio durante un trekking. A quel tempo qui non c’era nessuna scuola: in Nepal l’istruzione non è di fatto obbligatoria, né per i genitori di mandare i figli a scuola né, evidentemente, per il governo di fare le scuole per i cittadini, specie per quelli che vivono nei villaggi di montagna (infatti chiunque se lo può appena permettere manda i figli a scuole private).
La gente del villaggio (avranno capito il tipo, che era uno buono? Chissà....) gli ha chiesto di fermarsi e di insegnare ai propri ragazzi. Lui ci ha pensato un po’ su e si è detto “ perché non mettere radici qui , in questo bel villaggio, tra questa brava gente?”. E così è stato: ha dovuto affrontare un po’ di discussioni con i suoi genitori per abbandonare gli studi, ma ha seguito la sua decisione. Per i primi dodici-tredici anni gli abitanti del villaggio gli hanno garantito cibo e alloggio, ma lavorava senza stipendio, poi è arrivata l’ONG britannica e di seguito gli accordi con il governo e così ora c’è una bella scuola ben tenuta ed apparentemente ben funzionante, pubblica, con lui come direttore ed altri insegnanti a rotazione. Si è anche convertito al buddhismo, dalla sua origine hindu, si è sposato con una donna di qui ed ora ha una bella casa che è anche un lodge per i turisti di passaggio.

Dopo un po’ che le danze sono iniziate me ne vado a dormire: domani è di nuovo giornata di cammino ed anche le numerose tazze di raksi caldo invitano al sonno.
Da dentro al sacco a pelo li sento continuare a lungo, finché non mi addormento.


2-2-08
Da Malemchigaon si scende ripidamente (attenzione al ghiaccio!) per un po’, fino al ponte sospeso sul fiume dove trovo un vecchio col pugnale kukhuri alla cintola che mi fa capire che è di Malemchigaon e torna su al villaggio, si lamenta un po’ dell’instabilità del ponte e mi saluta stringendomi calorosamente le mani. La gente da queste parti è semplicemente troppo brava!
Durante tutto il percorso ho sempre trovato qualcuno subito pronto a darmi preziose indicazioni sul sentiero da seguire, perfino prima che gliele chiedessi o chiamandomi da lontano per correggere la mia direzione indovinando la mia destinazione – del resto nella stagione alta qui di turisti ne passano tanti e fanno tutti lo stesso percorso.
Ma la persona che ricordo forse con più piacere l’ho incontrata durante questa salita di oggi su dal ponte verso Tarkegyang.
Ad un certo punto, dalle parti del villaggio di Dozum non sapevo più bene da che parte andare, il sentiero non si vedeva più; ho visto una casa lì vicino e mi sono avvicinato, ma apparentemente non c’era nessuno, poi sento una voce che mi chiama da un po’ più in su e vedo una donna né giovane né anziana che sta mungendo una bufala. Mi chiede se sono da solo (la prima cosa che tutti mi hanno chiesto sempre stupiti in tutti questi viaggi nelle zone di cultura indiana, insieme a “what is your name?” e “where are you from?”) e poi mi dice se voglio bere un té.. Mi fa una bella impressione: è proprio l’immagine della contadina sherpa, son contento di fermarmi un momento con lei e accetto. Mi fa entrare in casa e sedere nella sua bella cucina in stile tibetano con la grande credenza piena di pentole, piatti e bicchieri di metallo e la stufa bassa dove mi siedo a fianco sulla destra, il posto di riguardo per l’ospite (o che altrimenti spetta al capofamiglia), mentre la donna è di solito a sinistra e i figli di fronte al fuoco, i maschi sulla destra e le femmine a sinistra (ed eventualmente gli altri ospiti continuando sul lato a destra seduti intorno a un lungo tavolo basso).
E’ molto gentile. Ha smesso di mungere, ha cominciato a raccogliere legna, ha riattizzato il fuoco ed ha messo su la pentola, cosi’, solo per farmi un te’ che mi ristorasse sul cammino, giacché sono passato da casa sua e sono solo.
Parla poco Inglese, mi dice che ha due figli (che però adesso non ci sono) ed il marito che lavora nella vicina regione del Langtang, poi, chiacchierando ancora scopriamo che eravamo tutti e due al monastero di Key, nella valle di Spiti in Himachal Pradesh, India, nel 2000, quando il Dalai Lama diede lì l’iniziazione di Kalachakra e si ricorda anche lei del po’ di trambusto che ci fu con la polizia ed i monaci del “servizio d’ordine” quando la gente spingeva tutta insieme per far in tempo a vedere il sacro mandala che sarebbe stato spazzato via al termine della cerimonia e ci mancò poco che crollasse la scala sulla quale tutti si affollavano per salire alla sala del mandala. Che combinazione!!
Dopo il té mi accompagna al confine dei suoi campi per mostrarmi il sentiero e intanto corre dietro alle mucche e ad un agnellino appena nato per riportarli nel recinto.
Non mi ha chiesto niente e credo di aver rispettato la sua dignità contadina nel non aver offerto di pagarle nulla per il té.

Riprendo la salita e c’è un altro momento che ricorderò.
Ad un certo punto scendo dei gradini di roccia piuttosto scoscesi, ma non considero che sotto lo zaino ho attaccato il sacco a pelo che mentre scendo punta sul gradino precedente e mi dà una spinta in avanti, per fortuna non abbastanza forte – ma proprio di poco - da spingermi davvero in avanti perché lì sotto ci sono subito alcuni metri di vuoto con delle rocce sul fondo.
Ci sono luoghi nel mondo dove forse la Morte ci sta aspettando (in quel momento? da sempre? - Ma esiste poi il tempo per la Morte?...): ha nascosto lì tutte insieme le condizioni giuste per venirci a prendere senza che noi lo sappiamo, ed è forse per un qualche nostro potere interno, per qualche nostra buona azione commessa in passato o qualcuna cattiva alla quale abbiamo rinunciato o forse perché è lei che poi proprio in quel momento si distrae un attimo con qualcun altro, che invece noi passiamo indenni e rimaniamo a riguardare, nella memoria, proprio quel punto nello spazio e nel tempo in cui per un nonnulla la nostra vita poteva finire, e invece no, invece c’è stato ancora tutto il resto e ancora siamo qui a raccontarlo.
Uno di questi posti, che è sempre quì nel mio ricordo come se a quella fine fossi scampato appena adesso, è un certo punto circa a metà del ponte di Ariccia, vicino Roma – un posto noto per i suicidi – dove a quindici anni, nel pieno della mia crisi adolescenziale autodistruttiva, c’è veramente mancato un attimo che non mi gettassi di sotto per una fine sicura e con questo non gettassi via tutto ciò che è stata la mia vita successiva.
Probabilmente son momenti che passano moltissimi ragazzi in quella fase di crescita, ma io ancora sento che non ringrazierò mai abbastanza quel basilare istinto di sopravvivenza che quella volta mi fece ricominciare a camminare per allontanarmi dal ponte al più presto senza aspettare di aver trovato una risposta giusta ai miei rimuginamenti di allora se fosse più giusto vivere o morire. Ringrazio la spada che ha tagliato di netto il gusto malato di quei ragionamenti, la mano che li ha sradicati senza considerazione. Ringrazio quell’istinto per avermi lasciato vivere tutta la vita successiva, per tutta la gioia e tutti i dolori, tutte le fatiche, compresa questa di questo cammino, per la possibilità di andarmi a cercare dovechessia, come che sia, la mia strada, fino a dimenticarmi i problemi di allora, per i quali avrei perso la vita e che oggi non hanno più nessun senso, oggi che ce ne sono altri che saranno sostituiti domani da altri ancora, fino a fare ogni nuovo percorso in cui sempre ci saranno pure angoli dove la Morte mi aspetta. Ma dopo quel momento su quel ponte, quando giungerò al punto in cui Essa mi prenderà sarà stata lei a cercarmi. Io la accetterò, ma se mi troverò nel punto in cui mi aspetta ci sarò per vivere la vita, non a cercare la morte.

Poco dopo questi scalini di roccia, un punto come un altro, un punto come un altro da ogni punto di vista altrui o precedente, arrivo a Tarkegyang, dove mi fermo a dormire.
Il lodge è di parenti della famiglia presso cui ho alloggiato al villaggio precedente, che me lo ha raccomandato.
E’ una coppia che ha tre figli lama a Dharamsala, sede del Dalai Lama in esilio in India, uno emigrato in Gran Bretagna, una figlia in Israele ed un’altra giovane e molto bella, delicata, che aiuta la madre a far da mangiare insieme ai due fratellini più piccoli.
Dopo un po’ arriva un gruppo di trekkers australiani, un gruppo organizzato, con tre guide e tre portatori. Non ci parlo un granché: l’Inglese parlato dagli Australiani (specie in gruppo tutti insieme) lo capisco poco.
Rimango un po’ a parlare con le guide nepalesi dopo cena.


3-2-08
Oggi avevo intenzione di fermarmi qui, ma fa già parecchio freddo, stanno arrivando nuvole ed il vecchio di casa prevede tempo cattivo. Il villaggio della tappa successiva è di poco più in alto, ma a quanto dicono meno esposto e meno freddo, perciò la decisione è presa: faccio lo zaino e via.

Puntuale, quasi l’avesse chiamata il vecchio, subito comincia a cadere la neve, ma leggera, sebbene per un paio d’ore.
Vado avanti bene: il sentiero è relativamente pianeggiante e mi sento pure la musica sull’Ipod, prima Buddha Bar poi Monte Adentro, i miei cari amici di casa, e poi il grande jazz di Ron Carter.
Dopo un po’ la neve smette , ma un altro problema si affaccia: continuo a camminare da un pezzo senza incontrare né gente né villaggi e ci sono stati un paio di bivi sui quali ho dovuto decidere a intuito. Intuito del quale comincio a dubitare a mano a mano che proseguo nella foresta. Una foresta fitta e nebbiosa: sembra di stare nel “Libro della jungla” o ne “I misteri della jungla nera” e che una tigre stia per saltar fuori da ogni cespuglio. In realtà si vedono solo diversi uccelli e molti segni sul terreno del lavoro di scavo da parte dei cinghiali, ma queste cose le vedo pure a casa mia.

Quando poi arrivo finalmente al villaggio di Sermantang (a conferma della correttezza del mio intuito) mi dicono che sì, le tigri ci sono, ed anche i leopardi, ma si tratta di una razza piccola e molto gentile: se gli fai “Namaste” (il saluto nepalese a mani giunte) ti fanno anche loro “Namaste”, mi dicono scherzando (sarà perché qui son tutti vegetariani che si crea un’alleanza con gli animali – ma pure con i carnivori? – però io comincio a sospettare se si tratti davvero di tigri, anche se.... rimarrò volentieri nel dubbio!).

La famiglia che mi ospita – anche questa parente di quelle dei due villaggi precedenti – è composta da una coppia sui cinquant’anni che hanno tre figlie emigrate in Israele e due figli studenti a Kathmandu che sono tornati al villaggio oggi per la festa del Losar, il capodanno tibetano che ci sarà tra quattro giorni. Sono un ragazzo di diciassete anni ed una ragazza di ventuno. Lei è stata due volte in Gran Bretagna con la compagnia di danze tradizionali nepalesi di cui fa parte. La prima volta aveva quattordici anni e voleva rimanere lì a lavorare, ma non sapeva che in Europa il lavoro minorile è vietato e ora, dice, è troppo difficile ottenere il visto. Lei parla bene Inglese e sembra una ragazza intelligente ed istruita. I genitori lo parlano molto meno, ma passiamo comunque la serata in una bella lunga chiacchierata su tanti argomenti: del Nepal, dell’Italia, del turismo, di una festa con danze di monaci che ci sarà nel villaggio due settimane dopo il Losar che mi fa venire in mente di tornar su per l’occasione.
Ad un certo punto saluto e vado a dormire: starei ancora ma ho capito che qui la gente va a dormire presto e non voglio disturbare (del resto non c’è luce, tranne una lampadina in cucina fiaccamente sostenuta dal pannellino solare in questa giornata nuvolosa).
In stanza solo le candele, per fortuna ne ho un po’ di scorta.
Nel sacco a pelo penso che è una bella fortuna aver trovato questa famiglia.

Trekking in Helambu - 5

4-2-08
Questo sarebbe dovuto essere l’ultimo giorno di trekking, secondo il mio programma: dovevo ripartire per la lunga discesa (un dislivello di 1700 metri) fino a Malemchipul Bazaar da dove prendere il bus per Kathmandu l’indomani. Ma questa mattina c’è un gran bel sole, questa famiglia mi piace e di tornare subito nel caos e nell’inquinamento di Kathmandu non ho molta voglia. Per cui ho deciso di fermarmi qui ancora qualche giorno fino al Losar che festeggerò così con questa famiglia ed i loro parenti che dovrebbero arrivare, anziché giracchiare per Boudhanath (il quartiere buddhista-tibetano di Kathmandu) come avevo pensato.
Così ora me ne sto qui a godermi il sole sullo spiazzo della casa e scrivo i ricordi di questi ultimi giorni prima che se ne volino via come le preghiere scritte sulle bandierine lungta che svolazzano qui intono.

Dopo alcune ore a scrivere al sole vado a fare una passeggiata. Prima al gompa, l’unico aperto dei quattro del villaggio. Il portone è accostato, ma un vecchio mi fa cenno di entrare, guardo e fotografo un po’ le immagini degli yidam (“divinità” tibetane) poi entra una vecchietta che sembra portare su di sé tutta la storia di questo villaggio e mi indica con sorridente decisione la cassetta delle offerte alla quale aggiungo il mio contributo.
Poi contino a camminare per un po’ fino a una grande statua dorata del Guru Rimpoche a pochi chilometri dal villaggio e ritorno.
Un paio d’ore di silenzio e profili di montagne al tramonto.

La sera ceno con la famiglia e mi dicono che la grande statua è stata portata lì in elicottero molto di recente grazie alle offerte di fedeli giapponesi e deve ancora essere inaugurata da un lama del villaggio sottostante che adesso vive in America e non si sa bene quando torna.
Mi raccontano anche altre storie interessanti, come quella del turista che è rimasto 43 giorni perso nella neve in una grotta presso Gosainkundh ed e’ stato poi ritrovato dai suoi parenti che lo cercavano in elicottero con una guida tamang e come poi questa guida che aveva ottenuto come ringraziamento un invito ad andare in Australia abbia avuto paura e rinunciato all’ultimo momento al punto di salire in aereo per un paese così sconosciuto.
Ed ancora del disastro aereo di un aerobus della Thai schiantatosi anni fa su queste montagne e di come le guardie parco ed i militari, i soli autorizzati a fare le ricerche, si siano dedicati soprattutto a trovare oro e dollari fra i resti bruciati di ciò che rimaneva dei passeggeri; con pochi risultati sembra, tranne per qualcuno che poi non si è più rivisto al lavoro.

5-2-08
La giornata, almeno fino a metà, procede con lettura al sole, a parte una chiacchierata col signor Kanchha Lama, il padrone di casa, mentre cuoce le babar, frittelle di riso per il Losar quando dovrebbero arrivare numerosi parenti in visita.
Più tardi, sempre con Kanchha Lama, andiamo da una famiglia di contadini qui vicino a cercare se hanno del miele delle loro api selvatiche o semiselvatiche, cosa che cerco sempre nei miei viaggi essendo nel miele un po’ dell’essenza di un luogo.
Mentre usciamo di casa c’è un uomo anziano del villaggio che è un’ora che sbraita e che sbraitava pure due giorni fa quando sono arrivato perché non ho scelto il suo lodge; sembra essere ubriaco o fuori di testa. Il mio ospite mi racconta che il vecchio era un bravissimo artista come non ce n’era nessun altro in questa zona: tutte le statue o i dipinti dei gompa qui intorno sono opera sua ed era anche un ottimo pittore di tangkhas (immagini sacre). Aveva un negozio a Kathmandu, ma il figlio andava sempre in giro a divertirsi e a spendere tutti i soldi finché un giorno non si è ammazzato in un incidente con la moto. Un altro figlio è emigrato negli USA, ma non gli manda mai un soldo. Così lui non ha retto a questi colpi, deve aver avuto una specie di esaurimento ed ha cominciato a bere parecchio: praticamente da una certa ora in poi è sempre lì che sbraita contro chiunque passa.
La famiglia da cui siamo andati è piuttosto povera, la vecchia è molto “etnica”, con collane ed anelli vari addosso, scalza come suo marito che sembra uno hobbit e che arriva poco dopo dalla foresta con un cappello rosso da puffo ed un bel sorriso mentre riporta a casa i suoi tre bufali.
Hanno costruito la casa nuova, di pietre e tetto in lamiera ondulata, con i soldi che il figlio ha fatto andando a lavorare in Ladakh (India) facendo il portatore in montagna per l’esercito indiano.
Non hanno miele in questa stagione, ma mi fanno vedere le arnie: sono pezzi di tronco d’albero (forse quelli stessi dove già si trovava l’alveare selvatico) inseriti nel muro di una costruzione che fa da stalla per le capre; da alcuni fori nella parete si vedono le api che vanno e vengono.
Hanno recentemente acquistato un centinaio di capre da commercianti indiani, ma sembra che abbiano preso una grossa fregatura purtroppo: le capre hanno una malattia agli occhi e piano piano diventano cieche; ne son già morte più di sessanta che, a quattromila rupie (circa 45 euro) l’una, da queste parti – e per una famiglia come questa – non è per niente poco.
Per il resto coltivano essenzialmente patate, oltre a qualche ortaggio e un po’ di frutta per sé. Qui è troppo alto per il riso ed anche per l’orzo, questi li comprano dalla pianura ed hanno un mulino a pietra che gira su un corso d’acqua per macinarli.
Salutata la famiglia, andiamo più avanti, al villaggio di Chumik, a trovar dei parenti di Kanchha Lama.
Come sempre la donna di casa ci prepara subito del té sulla stufa a legna. Io li ascolto un po’ chiacchierare nella loro lingua, che nel frattempo ho imparato non essere lo Sherpa dato che loro, pur passando nelle guide sotto questo nome, in realtà non sono sherpa. Per me è stato una specie di colpo di scena: gli Sherpa sono gli abitanti del Solu Khumbu mentre loro, gli abitanti dell’Helambu,- sebbene siano chiamati erroneamente Sherpa sulle guide - sono Hyolmo, detti Lama dai Nepalesi. Loro, come tutti gli abitanti dei villaggi precedenti che finora ho creduto Sherpa!
A me sembrano più o meno tutti tibetani, come per loro Italiani, Inglesi, Greci e Norvegesi siamo tutti europei (e anche per gli Americani, gli Australiani, i Neozelandesi non fanno differenza), ma, con un po’ di frequentazione, alcune sfumature di differenza diventano più chiare. Qui, rispetto agli Sherpa del Khumbu, sono un poco più “nepalizzati”, sia nei tratti somatici che negli abiti che nel cibo ed infatti il Khumbu è una zona di più recente, ancorché secolare, immigrazione dal Tibet, ed anche la lingua, pur simile, è diversa.
Comunque, per me è parimenti incomprensibile, sicché, mentre loro parlano, e sorseggiando il té, mi concentro sulla bellissima credenza antica in legno scuro intarsiata con dragoni ed altri simboli tibetani, grande da prendere un’intera parete dell’ampia cucina.
Kanchha Lama nota la mia attenzione e ne parliamo un po’: son mobili che non si fanno più, quel tipo di legno non si può più tagliare qui all’interno del Parco Nazionale del Langtang e comunque non ci sono più artigiani che fanno queste opere. Così una coppia giovane che mette su casa non ne trova da acquistare una nuova. Ma probabilmente neanche vorrebbe dato che anche qui, come da noi negli anni ’60, i giovani delle campagne desiderano le cose moderne per le loro nuove abitazioni.
Ed anche qui, approfittando dell’ignoranza, dell’abbaglio dei prodotti consumistici e della poca autostima per le proprie radici culturali, sono già arrivati furbi commercianti d’antiquariato, spesso anche occidentali, che vengono a “liberare” le famiglie originarie dei villaggi da queste “cose vecchie” pagandogliele ciò che a loro sembra un buon affare (tipo 100-200 euro) ed ottenendo delle vere opere d’arte che in Europa frutteranno come minimo 10-15.000 euro l’una.
Ovviamente non perdo l’occasione di farglielo notare: che col valore di uno di questi mobili in Occidente qui loro ci si potrebbero comprare una bella casa.


6-2-08
La notte è stata difficile: degli uccelli notturni? Ma no, più probabilmente dei topi; si sono infilati sotto il tetto di lamiera della mia stanza ed hanno ingaggiato una serie di scorribande, battaglie, vicende varie tra di loro con tanto di squittii e colpi tra la lamiera sopra ed il mio soffitto sotto che praticamente mi hanno reso impossibile dormire. Per fortuna il pannello di bambù che separa la stanza dal tetto era fissato sufficientemente bene da impedirgli di passare…. o forse erano loro che non erano interessati.
Verso le cinque di mattina il trambusto è finito, ma non rimaneva più molto da dormire.

Durante la mattinata ho portato le batterie della macchina fotografica a caricare al villaggio vicino, Chumik, ultimo punto finora dove arriva la linea elettrica. Una mezz’ora a piedi. Mi ha accompagnato Karma, il figlio di mr. Kanchha Lama.
Sta seguendo un corso di base per usare il computer a Kathmandu e vorrebbe aprire un internet point a Boudha dove ce ne sono ancora pochi a differenza del quartiere iperturistico di Thamel.
Vorrebbe fare qualcosa nel e per il suo paese, dice, ma il padre in questo non lo aiuta: preferisce che lui vada a cercar lavoro all’estero in qualche paese più ricco, come hanno fatto le sorelle in Israele e molti da queste parti - che mandano pure un po’ di soldi a casa.
Lasciamo batterie e caricatore ad una famiglia che ha la luce, almeno quando tornerà, perché in questo momento non c’è corrente – non mi sorprende: anche a Kathmandu non c’è per molte ore al giorno.

Nel pomeriggio una lunga passeggiata oltre il passo sopra il villaggio per vedere le montagne dall’altra parte.
In effetti per vederle mi accorgo di dover superare ancora un’altra sella di monte a cui però il sentiero, che scende ad un altro villaggio, non conduce.
Lo percorro lo stesso sperando in una diramazione laterale, un sentiero secondario, che poi infatti trovo e che mi regala, una volta percorso fino in cima, la splendida vista che cercavo.

La sera, al ritorno, ritrovo la famiglia che mi ospita, tutta intenta a preparare quelli che ricordano, come corrispettivo, i nostri addobbi di Natale. Solo che qui le persone sembrano conoscere ancora il significato simbolico di ogni oggetto e dell’esatto modo di predisporlo, o almeno lo conosce il capofamiglia al quale tutti fanno riferimento per sapere come e dove devono mettere ogni cosa.
C’è la lancia coperta di kata (sciarpe bianche di buon augurio), le ciotole con frutta, acqua e riso offerte alle varie manifestazioni dei Buddha e Bodhisattva, il piatto con i dolci per invitare al banchetto anche le anime dei parenti scomparsi. E incenso e burro di yak (“il più puro!”) a profusione.
Tutta la famiglia è impegnata da giorni a preparare cibi e piccoli allestimenti secondo la tradizione: c’è qualcosa di un “Natale in casa Cupiello” in stile tibetano, ma sembra senza drammi e retroscena… sarà forse perché già nell’iconografia tantrica il bene e il male sono complementari e non contrapposti?

Ad ogni modo, i topi questa notte sembrano aver trovato di meglio da fare, o perlomeno… altrove.


7-2-08
La mattina seguente l’atmosfera che ricorda l’opera di De Filippo continua nello stesso modo: i figli vanno a prendere la benedizione dal padre, che gli appiccica un pezzetto di burro di yak sopra la fronte.
Questa volta per colazione non ordino io quello che voglio, ma mi viene offerta quella che mangiano anche loro, speciale per il Losar.
Ne sono contento solo fino ad un certo punto a dire il vero perché, sì, i dolci simili alle frappe sono buoni e un mandarino era un po’ che non lo mangiavo, ma il curry di patate speziate con carne di capra e con le frittelle insapori di farina di riso non lo trovo proprio il massimo appena alzato ed anche l’interminabile serie di tazze di “tè” salato col burro – serie che non terminerà fino a sera inoltrata – onestamente è stata una di quelle cose che uno accetta giusto per cortesia – peraltro più che dovuta data la loro grandissima ospitalità.

Dopo un po’ torno al villaggio vicino per recuperare le batterie, ma quando arrivo lì mi dicono che purtroppo la corrente è tornata, da ieri mattina, solo per un’ora, da cui deduco che per le foto di oggi avrò solo ciò che rimane delle ultime due batterie ancora un po’ cariche ( - …e per fortuna poi basterà).
Tra l’altro in questo villaggio oggi c’è un’atmosfera non molto allegra : la notte scorsa è morta una donna anziana in una casa qui sotto e domani, più che il Losar, sarà celebrato il suo funerale.



Quando ritorno a casa trovo la famiglia, con alcuni parenti sopraggiunti, intorno al lama – anche questo in borghese – che sta svolgendo una breve cerimonia per benedire i lungta nuovi che sono stati issati ieri. Poi si beve e si mangia qualcosa e si va insieme al lama a trovare altre famiglie dove la stessa cerimonia viene ripetuta insieme all’intrattenersi un po’ in chiacchiere, tè salato al burro, dolcetti tipo frappe e raksi.
Dopo un po’ Kanchha Lama torna a casa, ma mi consiglia di unirmi ad un gruppo di festeggianti più giù nel villaggio, che in effetti sembrano divertirsi parecchio passando di casa in casa dove suonano, ballano e consumano le stesse libagioni, ma in maniera più abbondante mentre un lama, questa volta con i vestiti da monaco, benedice bandiere e persone.
Mi consiglia di andarci: lì i festeggiamenti sono più vivaci. Lui non verrà.
Il villaggio è diviso in gruppi per quanto riguarda le celebrazioni del Losar, ma non è tanto quello: ci deve essere qualche persona che lui non vuole incontrare in quel gruppo.
Comunque sia io mi avvicino e subito un uomo anziano con una barbetta da Lao Tze mi invita ad unirmi ai festeggiamenti. La musica, suonata col tamgnin, la chitarretta che anche io ho comprato a Kutumsang, è minima e la danza, tutti insieme in cerchio, un passo avanti ed uno indietro tenendosi per la vita, è al ritmo ripetitivo del canto. Un canto in Hyolmo antico, le cui parole sono di significato incomprensibile a loro stessi.
Naturalmente ben presto, in qualità di ospite straniero, divento oggetto dell’attenzione di diverse persone, particolarmente dei giovani del gruppo e del vecchio con la barbetta che non parla Inglese e continua a presentarmi i suoi nipotini e il figlio.
I giovani sono qui, come i figli di Kanchha Lama, venuti per il Losar da Kathmandu dove studiano. Particolarmente dal quartiere del grande stupa di Boudhanath dove risiede la maggior parte degli immigrati di religione buddhista nella capitale. Sono studenti, chi di hotel management, chi di pittura di tangkha.
Il figlio del vecchio Dawa Lama invece e’ un uomo adulto, un pittore ed insegnante di pittura sacra buddhista sia nello stile tibetano che giapponese (ha praticato anche in Giappone e in Malaysia) e di sculture sacre. Sono stili per cui ci vuole una lunga preparazione, non solo per conoscere le tecniche, ma anche tutti i complicati dettagli simbolici dell’iconografia tantrica: in effetti, di tuti i mille particolari che sono in una tangkha, l’autore non può inventare pressoché nulla.
Anche lui vive a Boudha dove ha parecchio lavoro nei numerosi gompa della zona, particolarmente in quello della comunità hyolmo (ogni gruppo etnico ha il suo) dove mi invita ad andarlo a trovare una volta tornati entrambi a Kathmandu.
Mi dice che ancora dieci-quindici anni fa per il Losar il villaggio era pieno di gente: molti ancora abitavano qui e quelli che erano andati a vivere in città comunque non mancavano di tornare per l’occasione, ed era una grande festa.









Oggi neanche l’emigrazione a Kathmandu sembra più bastare, molta gente è andata a trovar lavoro all’estero e al villaggio son rimasti solo i vecchi e solo pochi delle nuove generazioni vengono su a trovarli per la ricorrenza.
Gli dico che è probabilmente un passaggio inevitabile, che è successo ovunque. In effetti qui la vita è dura ed è comprensibile che qualcuno voglia cercare altrove il modo di cambiare la propria condizione. Ma spero anch’io, come lui, che prima o poi la gente tornerà: del resto, anche se in contesti molto diversi, anche da noi a volte i pronipoti degli ex-contadini son tornati a vivere in una campagna ormai a loro estranea allontanandosi dalla città, una volta che determinati servizi di base erano diventati disponibili anche fuori.
In effetti, con alcune minime comodità in più (che a volte neanche dipendono solo dai soldi, ma pure dalla mentalità) non vedo proprio come si potrebbe preferire la vita in un cadente e inquinatissimo quartiere di Kathmandu a quella in una meraviglia di posto come questo.
Alla fine, con qualche litro di té al burro ed un certo numero di tazze di raksi caldo in corpo e dopo una breve visita alla casa di Dawa Lama e del suo figlio pittore, torno alla mia stanza, mentre gli ultimi due o tre reduci continuano in una danza barcollante intorno al lungta più alto tenendosi affettuosamente con le braccia dietro la vita, canticchiando, un passo avanti ed uno indietro, tenacemente.


8-2-08
Oggi e’ tempo di andar via, di prendere di nuovo la strada.


Io saluto dei nuovi amici e riparto
Dei bambini schiamazzano al turista
ma il piccolo uccello verde non si muove nel vedermi.
Chi è seduto a mungere una mucca
e chi a guardare il cielo.
Mentre una famiglia celebra un funerale
un po’ più giù.
Nuvole di passaggio
sui monti di Sermantang.


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A volte si cammina piano
a volte lesti.
Ma sempre, anche in discesa,
i pensieri corrono di piu’.



Praticamente scendo un dislivello di oltre 1500 metri in tre ore. Col peso dello zaino è proprio una gran fatica: lo sforzo che faccio per arrestare ad ogni passo la spinta verso il basso, che mi farebbe cadere, tende continuamente i nervi delle gambe che comincerebbero a tremare se non fosse lo stesso sforzo dell’autocontrollo a contenere i suoi effetti.
Dato che sono alla fine del trekking i miei istinti di ribellione contro le fatiche di queste due settimane trovano libero sfogo e mi vengono in mente una serie di battute sarcastiche e di invettive ironiche contro la popolazione locale che ha fatto i sentieri (che, considerandoli seriamente, sono invece un lavoro eroico portato avanti per generazioni) e che ha messo le varie pietre nel modo certo più opportuno, ma, sembra ora a me, nel modo più adatto a rendermi il cammino il più scomodo possibile ed atto a farmi scivolare ad ogni passo. Alcune battute sono anche divertenti e mi fanno procedere per un po’ con un mezzo sorrisetto sulle labbra mentre sto attento a non inciampare. E mi rammarico di non poterle annotare sia per non perder tempo sia perché tanto il contesto della girandola di pensieri, stati d’animo e sensazioni fisiche all’interno del quale hanno senso sarebbe impossibile da riprodurre in parole.

Comunque sia, alla fine arrivo giù a valle, al villaggio di Tembhu, veramente distrutto, quasi pronto ad auspicare il rasamento al suolo di qualechessia rilievo montuoso sulla faccia della Terra e l’abolizione della parola “trekking” dal vocabolario.
A Tembhu c’è la strada, e con lei il bus che viaggia fino a Kathmandu: un miracolo di tecnologia rispetto al mondo che ho vissuto finora su queste montagne. Solo che il bus, che due ragazzi stanno lavando con uno straccio e un secchio d’acqua verso il quale mi dirigo fiducioso e contento di essere finalmente su una superficie quasi regolare e relativamente orizzontale, non è destinato a partire: il bus che devo prendere arriverà fra due ore e mezza dalla capitale (se tutto va bene) per ripartire subito.
Va bene, ok, tutto piuttosto che camminare ancora. Aspetto le due ore e mezza, mi levo scarpe e calzini, immergo i piedi nel torrente da cui i ragazzi prendono l’acqua col secchio per gettarla sul bus a riposo, ma poco dopo li devo levare a causa di una sensazione di quasi congelamento. Poco dopo, mentre io mi sono messo a leggere e a sgranocchiare un po’ dei dolci tipo frappe del Losar che la famiglia di Sermantang mi ha dato da portar via, vedo uno dei due ragazzi del bus che si spoglia e si lava gettandosi addosso abbondanti secchiate della stessa acqua del torrente. Che dire? Ci sono cose a volte sulle quali anche i relativisti hanno le loro ragioni!

Una volta salito sull’autobus e che questo è partito un tipo attacca discorso e mi dice di essere stato tre anni in Malaysia a lavorare in una fabbrica di lampade da tavolo destinate all’esportazione verso il mercato francese. E fin qui un ulteriore segno della globalizzazione che si arrampica come un’edera fin sopra queste montagne... solo che prima di scendere mi informa che il viaggio verso Kathmandu non durerà quattro ore come pensavo, ma sei o sette, facendomi arrivare verso le nove di sera quando è quasi tutto chiuso e, detto questo, scende verso i fatti suoi e mi lascia alla strada che dire dissestata è farle un complimento immeritato e alla musica distorta e rimbombante dagli altoparlanti che sembrano fare la gioia e la consolazione di quel poveraccio dell’autista al quale auguro di non venire mai a sapere che esiste anche il servosterzo fino al giorno in cui non potrà anche lui servirsene sul suo lavoro.
Il paesaggio della campagna nepalese in compenso è stupendo, anche se non mancano neanche diverse scene che rasentano la vera miseria passando per i paesucoli che si incontrano lungo il percorso.
Durante il viaggio ad un certo punto salta fuori un telefonino dimenticato da un passeggero già sceso. Si scatena una accesa discussione tra un tizio che cerca di argomentare che il cellulare è suo ed altri seduti nei posti lì intorno che sanno che non è vero e glielo tolgono dalle mani. Uno di questi guarda la rubrica e telefona a qualche parente del proprietario e poi lo mette in comunicazione con l’autista perché si mettano d’accordo per recuperare il telefono.
Anche da noi sarebbe andata così?..... Chissà?!

Finalmente arrivo a Kathmandu, taxi, albergo, ristorante, la sera doccia – non veramente calda, ma assolutamente necessaria.
Di esser tornato nello stesso albergo a Thamel non sono molto contento, ma avevo lasciato qui il resto del bagaglio ed ora è troppo tardi per cercare altrove una stanza. Trovero’ un’alternativa nei prossimi giorni, magari vicino al grande stupa di Boudhanath.
Per ora e’ andata piu’ che bene!


Aiku di Stagione

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ESTATE



Nella gabbia del pavone
Solitudine….
e bellezza



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La scìa di un jet
ha distinto il cielo in due parti,
ma è già scomparsa



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Piccola falce di luna
che sorgi al tramonto.
Dopo una giornata a falciare sul campo,
mi ricordi
….che sono un poeta





AUTUNNO


Tra la nebbia
indovino i contorni
di ciò che mi è consueto



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Sull’alto dell’albero
mi tendo
a cogliere, lontana,
l’ultima oliva



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E via, e via, come onde,
partono i cerchi
dal punto in cui il sasso ho gettato nell’acqua.
In ogni direzione corrono
Ad avvertire i sassi della riva
che il loro compagno non è più.
Riposa ormai nell’al di là,
il mondo ignoto
dei sassi del fondo.



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Grande perla del cielo,
e’ piena la luna,
tondo il suo cerchio.
Con grida acute
la chiama la civetta



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Nella nebbia tutto è fermo,
anche i colori.
Oscilla un ramo
Come le mie decisioni…
….sospese








INVERNO


Dopo le urla ventose dell’autunno,
di silenzio
restan vestiti gli alberi



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Pensieri, risentimenti, progetti
Si accavallano mentre raccolgo i sarmenti.
Poi il volo d’un passero mi ferma
e vedo:
un pazzo che si muove nella nebbia



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Mille stelle limpide puntellano
il nero ghiacciato della notte,
ferma.
Sospesa sopra la neve



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Frigge la luce
sui blocchi di brace
Fuori ulula al buio
un vento nevoso.
Resterò qui a soffiare…
perché non si spenga



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Seduto in silenzio
seguo la marea aerea
di questo vento
che non si dà pace,
ed espira ed inspira,
come risacca



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Sul cielo livido
si tende, artiglioso,
un ramo.
Stagione senza foglie



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Sulla cima del pino
saltella
Saggia due tre rametti – è un passero.
Poi vola via



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Rigidezza, solidità….
Forse che il ghiaccio piangerà
a primavera,
nello sciogliersi?



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Aprendo gli occhi, stamattina,
guardo dietro ai vetri
i rami incrociati dei cedri,
scarabocchi neri, arzigogoli del risveglio
tra me e il cielo



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Celeste e pungente il mattino invernale
Inizio la mia giornata mentre
la lastra di ghiaccio
è bagnata dal sole




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Avventato, temerario…
ad invocare la Primavera
fiorisce il mandorlo






PRIMAVERA


Lo scheletro del mandorlo
si popola di gemme.
Non finirà mai




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Un attimo di pausa alla finestra
per mezza tazza di tè:
anche la gallina è seduta
a guardare il tramonto




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Una goccia si è tuffata nel lago
a descrivere la superficie
con mille cerchi.
Aiku concentrici d’acqua




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Nuvole nel cielo
Sul pavimento
riconosco che è uscito il sole
Perché sono netti
i disegni delle ombre




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Neve in Aprile.
Sicurezze ed abitudini
vacillano
alla tramontana della vita








FUORI STAGIONE







Solitudine
Aspettando qualcuno che
mi telefoni
e mi riempia la vita
come un bicchiere di vino,
di brillante pienezza,
e di ebbrezza,
e che subito è vuoto,
lasciando un fondo opaco,
dal sapore di….
Solitudine
Aspettando qualcuno che….




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Malditesta,
sul treno
più veloci corrono i pensieri




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Semplicemente non suona
la musica tranquilla
del silenzio




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Breve come un aiku,
di un’istantanea emozione…
ha già detto troppo








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