mercoledì 9 settembre 2009

Nel paese più bombardato del mondo - il Laos


Pochi chilometri fuori Luang Prabang una specie di agriturismo locale, bei bungalow di legno e tetto di paglia in un gran giardino. Le costruzioni tradizionalmente su palafitte salvano bene dai serpenti, ma non dagli insetti: ho lasciato un pacchetto di noccioline ieri sera sul tavolo ed oggi ho le formiche anche qui sul computer, tra i tasti su cui scrivo. La foresta pullula di vita in ogni dove: il “brodo primordiale” ancora in piena attività.
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Una cosa che colpisce immediatamente del Laos è il senso di equilibrio, una buddhistica via di mezzo tra la comprensibile spinta verso un certo grado di sviluppo e l’amore per il proprio stile di vita atavico, lento e rilassato.





Il Laos confina ad ovest con la Thailandia, ormai proiettata nel sogno consumista consentitole anche dallo svendersi ogni giorno ad orde di turisti con mezzi molto più limitati di quanto non siano le loro pretese e, ad est, con il Vietnam, rampante, tutto dedito al lavoro ed alla crescita, piani sui quali ha trasferito il proprio indomito spirito di combattente con lo stesso entusiasmo oggi, in un capitalismo non dichiarato, che ieri, nel precedente ideale comunista. A sud c’è la Cambogia, mai risorta dallo spesso strato di ceneri umane con cui i Khmer Rossi l’hanno ricoperta, mai ripresasi dai colpi dell’ideologia applicata alla lettera e fuori contesto da Pol Pot ed i suoi (alcuni dei quali si son saputi riciclare abbastanza da star tutt’oggi in parlamento) e dalla strumentalizzazione straniera che è ormai divenuta cronica – dato che la Cambogia vive soprattutto di programmi delle ONG e di investimenti vietnamiti e thailandesi. Al nord due dittature: quella sfacciata e sanguinaria, ma di poco peso internazionale, della Birmania (Myanmar) e quella immensa e sempre un po’ indecifrabile della Cina, gigante del futuro che è già cominciato.

Collocato in questa cornice, il verdeggiante Laos brilla, agli occhi del viaggiatore, per la sua apparente equidistanza da tutti gli eccessi.




Della Cambogia non ha la miseria e la distruzione, né le profonde ferite difficili da rimarginare all’interno della società; della Thailandia non ha la relativa ricchezza e le infrastrutture, ma neanche la corsa al guadagno e al consumo ad ogni costo e col Vietnam condivide il sistema politico a partito unico comunista, ma nel caso del Pathet Lao il potere fu ottenuto – pur dopo anni di combattimenti - con un golpe incruento quando cinquanta soldatesse “presero” simbolicamente la capitale Vientiane e la sua fase di accentramento statalista e di economia pianificata con abolizione della proprietà privata finì di fatto prima che si fosse compiuto il primo piano quinquennale. Della Birmania non ha, per sua fortuna, una banda di assassini al potere e, della Cina….non potrebbe essere che una piccolissima provincia.



C’è un noto adagio popolare, coniato dai Francesi quando colonizzarono questa parte del mondo, secondo cui i Vietnamiti piantano il riso, i Cambogiani stanno a guardarlo crescere, i Laotiani ascoltano la musica del riso che cresce (e – si potrebbe aggiungere - …. i Cinesi lo raccolgono e lo vendono). Come ogni adagio si tratterà soprattutto di un luogo comune, però – come in tutti i luoghi comuni – ci si può trovare anche del vero.

Il Laos non ha grandi risorse: un po’ di agricoltura e di legname, ma un’industria insignificante – su standard di “sviluppo” – e nessun accesso al mare, per un totale di circa 1500 euro di reddito annuo pro capite. Però ha una popolazione ridotta, meno di 6 milioni di abitanti, e non ci sono grandi città: delle tre più grandi Vientiane ne conta 250.000, Luang Prabang 30.000 e Pakse 60.000; gli altri centri da noi sarebbero poco più che dei paesotti. In totale la popolazione che si può dire urbanizzata non arriva a un 10%.



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Nell’autobus da Pakse verso sud, seduto nel posto stretto adatto alla statura media asiatica, guardo un po’ il videoclip sul televisore fissato sopra il posto dell’autista. L’immagine si blocca spesso frammentandosi in quadratini colorati, ma quando scorre mostra i sogni globali arrivati anche qui cantati da un buffo personaggio in giacche sgargianti, che fa pensare a un venditore di palloncini al luna park, circondato da ballerine abbigliate in stile vagamente moulin rouge che accennano movimenti tradizionali lao. I video raccontano di amori struggenti, gelosie e tradimenti che viaggiano via sms su cellulari e motorini ultimo modello e che vengono risolti grazie ad interventi di plastica facciale e body building. Le felicità a buon mercato sulle quali è ovunque umano farsi delle illusioni.
Fuori dal finestrino contadini, bufali e risaie ed un monastero buddhista circondato da uno stagno pieno di fiori di loto.




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Questo vuol dire che gran parte della popolazione è rimasta nelle campagne, nei villaggi, che è rimasta contadina, che non c’è stato quello sradicamento dalla terra e da una vita tradizionale ed adattata all’ecosistema per riversarsi nelle periferie metropolitane che ha sconvolto ed immiserito molte società asiatiche e del Terzo Mondo.

Questo credo voglia dire che la gente di qua ha una forte identità legata alla propria terra e al proprio stile di vita e che non è così pronta a correre dietro al primo specchietto per le allodole: i Laotiani sono noti per amare una certa godibilità nella vita e vedere con sospetto attività stressanti ed egoistiche finalizzate totalmente al profitto.
Ma deve esser anche segno che pure le scelte politiche del governo hanno permesso a questo popolo di continuare a vivere della terra e del proprio stile di vita tradizionale; che si son creati (protetti, mantenuti) i presupposti per rendere ciò possibile, ovvero che, al contrario di quanto è avvenuto più spesso altrove, non si son creati i presupposti contrari.

Con l’instaurazione del sistema comunista son state confiscate e redistribuite le terre non coltivate, ma chi coltivava direttamente il proprio appezzamento lo ha mantenuto in usufrutto e poi in proprietà e le prime riforme del nuovo corso “post-ortodossia statalista” sono andate nella direzione di aiutare la gente dei villaggi a migliorare la propria condizione. E tuttora oggi la prudenza che il governo segue nei confronti dell’apertura – ancora piuttosto limitata – agli investitori stranieri, mantiene il paese con un ridottissimo settore industriale (sebbene ci siano importanti risorse idroelettriche e minerarie quali oro, argento e carbone) e con un’economia fondamentalmente agricola non estensiva, dato anche che la conformazione collinare del territorio non lo consentirebbe comunque.
Onestamente, non è che mi sia messo a far ricerche approfondite sull’economia e la società laotiana, però posso registrare ciò che percepisco dal mio punto di vista di viaggiatore coinvolto in qualche misura anche professionalmente nel turismo.
In tutta l’area del nord dell’Indocina, una delle principali attività turistiche è costituita da trekking ed escursioni sulle montagne e nei villaggi dove vivono i cosiddetti “montagnards” , ovvero le etnie tribali di Birmania, Thailandia, Laos, Vietnam e della regione cinese dello Yunnan: vera e propria “attrazione” voyeuristico-culturale a causa dei loro costumi tradizionali, del loro artigianato e delle loro abitazioni tipiche.

Intorno alla presenza di queste minoranze etniche gira un business su cui guadagnano in molti operatori e lavoratori del turismo, soldi che – in un modo o nell’altro - vanno ad alimentare anche l’economia generale di questi paesi e le finanze delle amministrazioni pubbliche, ma che non porta pressochè alcun guadagno alle popolazioni interessate le quali restano al centro di questo fenomeno solo come soggetti fotografici in costume, vero nocciolo duro – loro malgrado – di tutto il business.

Viaggiando in Vietnam, ad esempio, ho pensato spesso che sarebbe giusto se fosse istituita una tassa sulle fotografie da far pagare ad ogni turista che entri nei territori a forte presenza tribale il cui ricavato fosse interamente destinato alle comunità locali (e specialmente alle donne, che sono poi quelle che ancora portano regolarmente l’abito tradizionale – ovvero il vero motivo per cui i turisti si spingono fin lì - ma che sono anche coloro che amano meno essere fotografate).

Una simile tassa darebbe un dovuto ritorno a chi permette con la sola propria presenza significativi guadagni ad imprenditori spesso del tutto estranei al luogo - evitando al tempo stesso l’umiliazione di chiedere pochi spiccioli al singolo turista per lasciarsi fotografare - e sarebbe pure un riconoscimento del valore e dell’apprezzamento internazionale (quantomeno estetico) di determinati tratti culturali e di chi li mantiene oltre a poter essere destinata ad organizzazioni di base locali ed ai loro progetti anzichè andare – com’è per l’elemosina - ai singoli che accettano di vendere di volta in volta la propria immagine (quand’anche riescano a farsi pagare qualcosa per questo – il che non è affatto scontato).

In Thailandia poi, la situazione è perfino peggiore: il turismo al nord è nato e si è sviluppato in massima parte grazie alle etnie tribali ed è cresciuto senza alcuna regolamentazione né pianificazione ad opera di imprenditori per lo più provenienti dalle grandi città ed estranei ai popoli interessati. In un territorio che non poteva avvantaggiarsi delle stupende coste che abbondano nel resto del paese, la presenza delle minoranze etniche delle montagne con la loro peculiare cultura è stata sfruttata alla stregua di una miniera d’oro fino ad esaurirne di fatto il filone, al posto del quale rimangono oggi i segni del saccheggio nei molti tribali che continuano a mimare le proprie tradizioni ad uso e consumo dei turisti (sebbene ci siano pure gruppi che si muovono in senso contrario come IMPECT (Inter Mountain Peoples Education and
Culture in Thailand Association - vedi:
http://www.indigenousportal.com/Self-Determination/-Promoting-and-protecting-the-rights-of-Indigenous-and-Highland-Ethnic-Peoples-in-Thailand.html).
Di fronte all’esperienza dei paesi vicini, il Laos, nell’aprirsi al turismo, ha optato per delle linee differenti. A partire dalla Provincia di Luang Nam Tha (settentrionale e montana, a forte presenza tribale) l’amministrazione pubblica ha preso in mano la situazione: alcuni anni fa tutte le attività turistiche escursionistiche e di trekking private sono state vietate ed è stato fondato un Ecotourism Project (http://www.unescobkk.org/culture/our-projects/sustainable-cultural-tourism-and-ecotourism/namha-ecotourism-project/) che ha stabilito un codice di condotta (in linea con quello del Turismo Responsabile) sia per gli operatori che per gli stessi turisti che per gli abitanti dei villaggi interessati; le guide sono state formate con appositi corsi ed hanno dovuto ottenere l’autorizzazione provinciale per poter lavorare; la pianificazione e la gestione dei percorsi di trekking è stata concordata insieme con le comunità dei villaggi: solo quelle che si son mostrate interessate ad accogliere turisti. Sono state stabilite regole per lo smaltimento dei rifiuti e per la redistribuzione dei profitti, c’è un numero massimo per le dimensioni dei gruppi di visitatori. Dopo alcuni anni di sperimentazione ed implementazione del progetto e di attenzione ai feedback che venivano dalle varie parti interessate si è passati dal monopolio pubblico all’autorizzazione di un certo numero di agenzie private che restano però tenute a rispettare lo stesso codice di condotta e che devono impiegare solo guide autorizzate. Il turismo fai da te, nelle zone delle comunità tribali, non è permesso. Il progetto ha avuto un notevole successo e si sta estendendo a diverse altre province su tutto il territorio nazionale.
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Guardo sempre fuori dal finestrino del bus: campagne, villaggi e paesetti. Il Laos è tutto una grande provincia, un paese interamente di provincia, senza una metropoli, ma non è un paese provinciale: perché non cerca di essere qualcosa che non è, non scimmiotta nessuno ritenuto tale da sentirsi migliori non appena si acquisisce un tratto simile ai suoi, perfino uno dei più discutibili. In questo senso l’Italia, terra un tempo di una “caput mundi”, ed oggi sempre attenta a stare al passo/correr dietro ai “grandi” dell’Occidente, è molto più provinciale di questa piccola repubblica dimenticata alla periferia dell’impero – che forse proprio al tenersi così in disparte deve la sua salute.

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In questo modo il Laos riesce finora a preservare sia la natura che la cultura di queste zone il che significa anche mantenerle come una risorsa economica permanente col duplice effetto di sviluppare in modo sostenibile e durevole le proprie risorse nel settore turistico e di far sì che questo controbilanci la carenza che c’è in altri quali quello industriale – due aspetti di un unico mantenimento della qualità della vita. Si tratta, intelligentemente, di valorizzare in modo lungimirante ciò che si ha, senza spremerlo stile “usa e getta”, evitando di stravolgere l’ecosistema in cui si vive e la vita della gente, senza rincorrere miraggi estranei alla propria realtà, alle proprie possibilità ed anche alla propria cultura.



L’intelligenza degli amministratori laotiani è stata quella di prendere il fenomeno e dargli una decisa impostazione quando era ancora agli inizi perché, una volta che il business turistico selvaggio ha preso il sopravvento ed ha procurato i suoi effetti ambientalmente e culturalmente stravolgenti e sradicanti, non c’è più molto da fare.

Quando la gente si è convinta che l’unico modo per migliorare un poco la propria condizione sia quello di gettare alle ortiche ciò che si ha e ciò che si è da sempre, non potrà che essere tutto il ciclo delle conseguenze ha mostrare i pesanti effetti collaterali di questa scelta, un ciclo che può durare diverse generazioni durante le quali si saranno bruciate le risorse necessarie per pagare il salato conto che la realtà dei fatti presenterà alla fine.


Il Laos sembra aver osservato e compreso quanto stava accadendo nei paesi confinanti, sembra aver imparato la lezione dagli errori di chi ha affrontato in precedenza gli stessi passaggi ed aver agito per tempo: quanto di meglio ognuno dei cosidetti “paesi in via di sviluppo” dovrebbe fare. Ma davanti a ciò non possiamo non chiederci se questo non sia stato possibile solo nelle condizioni politico-economiche in cui un paese come il Laos si trova: quelle di un paese non ancora “sviluppato” e guidato da un partito unico che ha vinto una rivoluzione popolare. Potrebbe fare altrettanto un regime modellato sulla falsariga di quelli occidentali in un paese del Terzo Mondo? Lo potrebbe fare anche solo una delle stesse ricche democrazie occidentali? Governare certi processi prima che sfuggano di mano non consente troppo spazio per tergiversare e, una volta che questi hanno portato i loro cambiamenti nella società e nella mentalità, non c’è più molto che possa esser fatto per recuperare quanto si è perduto.
Con ciò non voglio ignorare che anche in Laos c’è corruzione e che ci sono state vendette contro minoranze etniche come i H’mong (che hanno combattuto i comunisti per conto ed al soldo della CIA con la promessa di avere poi uno stato indipendente con territori da sottrarre a Laos e Vietnam). Né si può negare che ci sono state violazioni dei diritti umani, specialmente in passato contro i sostenitori del re e delle forze della destra (internati, anche per anni, in campi di “rieducazione”) e neppure che, a tutt’oggi, non è dato alla popolazione sapere quali siano le scelte del governo per il prossimo futuro né quali siano i dibattiti interni in corso. Però – e senza dimenticare che anche nelle nostre democrazie sviluppate non è certo tutto oro quel che riluce - registro il fatto che dalla realtà del Laos emergono alcune condizioni che, quando si ritrovano insieme nella realtà di un paese, possono permettere di seguire una “via di mezzo” equilibrata tra sviluppo e povertà e di mantenere una certa misura necessaria di controllo sui processi storici di trasformazione a livello locale.
Queste caratteristiche che il caso del Laos ci mostra sono che si tratta di:
- una economia fondamentalmente basata sull’agricoltura familiare su piccola scala (e in cui, di conseguenza, gli altri settori economici sono tarati a misura di questo segmento centrale – che è pure la condizione di vita della stragrande maggioranza della società);
- una popolazione di numero limitato;
- una cultura in cui non c’è stata una frattura irrimediabile con la tradizione;
- una forma di governo in cui il sistema e la visione di fondo non possono essere messi in discussione.


A stemperare l’orrore che in alcune persone potrebbe provocare il quarto punto vorrei aggiungere che :
- credo sia immaginabile che in ogni partito unico, da che mondo è mondo, non ci sia mai stata una univoca uniformità di vedute, ma che, anche lì, ci sia sempre e comunque una dialettica interna tra una varietà di posizioni – anche se, certo, varie solo entro certi limiti;
- il fatto che l’unità politica corrisponda ad una popolazione limitata nel numero e anche ad un territorio limitato – ovvero che rimanga nella dimensione del locale – insieme ad un sistema economico semplice, non troppo sviluppato e pertanto non troppo complesso – ovvero che rimanga alla portata - anche di comprensione quanto ai suoi meccanismi interni - da parte della generalità della popolazione – potrebbe permettere un certo grado di controllo democratico anche in un sistema politico con una costituzione che non permetta margini troppo ampi per mettere in discussione alcuni principi fondamentali. Questo è un modello ipotetico, e non so dire quanto il caso del Laos ci si avvicini, ma potrebbe essere un sistema possibile in una nazione/unità politica di piccole dimensioni (in territorio e popolazione) retta da un regime a partito unico all’interno del quale ci sia spazio per diverse liste, mozioni o istanze particolari.

Questo tipo di controllo democratico a livello locale non so dire quanto sia presente in Laos, onestamente, e posso immaginare che non ce ne sia un gran che, ma qui non si tratta di esaltare il paradiso di una qualche utopia realizzata di turno e pertanto non credo ciò tolga nulla a quanto da questo paese possiamo trarre come elemento di ispirazione e riflessione e per trovarvi qualcosa da imparare.

Oltre al fatto di chiederci se tutto ciò sia comunque possibile al di là di un certo limite di sviluppo: il Laos ha ancora una popolazione in cui la società si riconosce in una cultura comune tradizionale condivisa sostanzialmente dalla generalità delle persone delle varie provenienze locali e delle diverse generazioni ed oltre a ciò la stessa relativa povertà, un autoregolante principio di necessità, rende immediatamente percepibile ad ognuno l’importanza di una certa solidarietà, rispetto reciproco, armonia sociale dato il bisogno di collaborare ed una certa dipendenza e bisogno reciproci diffusi (a questo va aggiunto che apparentemente nel paese esiste una certa misura di livellamento economico-sociale: non si vedono differenze eclatanti di status symbols e non si incontrano pressoché mendicanti né prostituzione – eccetto un minimo nella zona turistica della capitale).

Questi due elementi garantiscono ancora un importante grado di compattezza sociale che livelli maggiori di ricchezza vanno poi a minare, sia per il venir meno della necessità di darsi una mano reciprocamente sia per l’aprirsi di spazi individuali di diversificazione culturale e di valori di riferimento divergenti ed a volte opposti all’interno della stessa società.

Forse quei processi che un paese come il Laos è ancora in grado, con intelligenza e lungimiranza, di gestire, noi li abbiamo già superati da un pezzo e dovrà prima giungere, dalle condizioni oggettive che abbiamo creato, la lezione (questa sì temo non tanto “democratica” né attenta ai “diritti umani”) delle conseguenze della nostra miope opulenza ad insegnarci qualcosa.
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Girando in bici tra le risaie ed i palmeti nell’isola di Don Khon, osservo i contadini intenti a trapiantare il riso, i bambini che piazzano piccole trappole per le rane e le donne al telaio all’ombra sotto il pavimento delle case su palafitte. Da qualche finestra a cui è appesa a sventolare la bandiera rossa con falce e martello si sente la musica commerciale dei videoclip che vedevo nel bus.



E penso a questo popolo gentile, sovranamente pacato, e alla sua sovranità e a come l’ ha guadagnata con una piccola rivoluzione dimenticata dalla Storia, pagata ad alto prezzo in vite umane dimenticate dalla cronaca. Gente leale, che ha sostenuto la parte giusta, aiutando i guerriglieri di un popolo fratello nella loro lotta eroica di Davide contro Golia. Lotta vittoriosa, che i Vietnamiti, gente di ben altra pasta che i Laotiani, non avrebbero potuto (nonostante gli oggettivi rapporti di forza) non vincere – a meno che non si fosse deciso di massacrarli tutti, fino all’ultimo uomo, fino all’ultima vecchietta. I Laotiani li hanno aiutati, dandogli cibo e rifugio, e lasciandoli passare sui loro sentieri nella foresta, sentieri che conoscevano solo loro e gli animali selvatici che li abitavano. Sentieri sui quali i tecnologici soldati americani ben si guardarono dallo spingersi – lasciando fare alle bombe: credevano di averne più che a sufficienza, ma due milioni di tonnellate non sono bastate a piegare questa gente. Come tre milioni di morti non sono bastati al Vietnam.
I Laotiani però non hanno preso più di tanto parte attiva a quella fase in cui tutta la regione era a ferro e fuoco. Ed ha fatto presto, il loro governo, a capire che non si può spazzar via per decreto la cultura e la tradizione di un popolo per sostituirle con ideologie d’importazione.



Bambini e adulti mi salutano al passaggio: per quel che ne sanno, potrei benissimo essere americano. Non importa: tutte le cose arrivano, prendono forma e poi vanno, come quei piccoli vortici che si formano brevemente, nell’acqua del Mekong.

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D‘altra parte, che la maggioranza dei Laotiani si tengano abbastanza di buon grado questo regime non democratico, lo possiamo capire meglio anche se andiamo a vedere ciò che il paese-campione della democrazia occidentale e del suo successo mondiale ha fatto al piccolo Laos.
Nella provincia di Xiengkhouang, vicino la città di Phongsavan (come anche in diverse altre zone lungo il confine col Vietnam) passava il “sentiero di Ho Chi Mhinh”, il percorso che i Viet Cong seguivano per portare armamenti e rifornimenti dal Vietnam del Nord comunista a quello del Sud sotto il controllo degli USA. Il Pathet Lao (partito comunista laotiano) e la popolazione locale permettevano il passaggio ed aiutavano i guerriglieri vietnamiti che approfittavano della fitta foresta e delle numerose caverne per cercare di passare inosservati. L’esercito USA si tenne alla larga dal tentare un’offensiva di terra in un territorio così pericoloso ed appartenente ad un paese formalmente neutrale, ma, sulla terra, la CIA foraggiò un esercito segreto formato dai tribali H’mong promettendogli un irrealizzabile stato H’mong (come fece poi con i mujaheddhin afghani e tanti altri gruppi armati nel mondo) che piccoli gruppi di disperati ancora perseguono nascosti nella jungla e, dall’aria, scaricò 2 milioni di tonnellate di bombe di ogni tipo (più che in ogni altro paese al mondo in ogni guerra nella Storia: equivale a 350 chili per ogni abitante compresi vecchi e bambini oppure al carico di un bombardiere gettato ogni 8 minuti per 24 ore al giorno per 9 anni) su questo piccolo paese non belligerante.
A Phongsavan una ong (MAG – Mines Advisory Group = www.maginternational.org) lavora ancor oggi, a trentaquattro anni di distanza, a disinnescare le bombe inesplose che tuttora mietono vittime tra la gente del posto e limitano fortemente la possibilità di estendere le terre coltivabili data la probabilità di morire su qualche ordigno. Durante il tempo dei bombardamenti (come per altre operazioni più recenti, formalmente non si poteva parlare di guerra) gli abitanti di questa zona dovettero vivere nascosti, ammassati nelle grotte ed uscire a coltivare le risaie solo di notte. Le grotte servivano anche come ospedali, ma ciò non risparmiò i laotiani che vi si rifugiarono dall’essere bersagliati dai missili americani già allora “intelligenti” abbastanza da infilarsi nelle cavità ed esplodervi dentro facendo anche centinaia di vittime in un colpo solo.
Tutto ciò è ben documentato in un video (http://www.itvs.org/shows/ataglance.php?showID=7321) che questa ong internazionale proietta ogni giorno nel suo ufficio in città, come pure dai numerosissimi resti di bombe che si offrono alla vista del viaggiatore sia nell’ufficio turistico locale che nei diversi usi con cui l’inventiva dei laotiani è riuscita a riciclarli: dalla base di sostegno per un serbatoio d’acqua, a un lungo vaso sospeso fuori casa per piantarvi le cipolle, fino a pali di sostegno per le recinzioni.



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A Si Phan Don, le “quattromila isole” nel sud del Laos al confine con la Cambogia.
Una stanza galleggiante di legno e di bambù sul Mekong, Su una sdraio sul balconcino a filo d’acqua, lascio scorrer via la stanchezza del viaggiare con la vista delle acque marrone rossastro. Il fiume porta il suo dono di detriti fangosi fin dal Tibet ad alimentare il vasto delta, in Vietnam, dove i contadini riescono a fare anche tre raccolti di riso l’anno.
Le acque fluiscono lente e veloci al tempo stesso, inesorabili, tra me , che son di passaggio, e quella famiglia di cui sento le voci, la cui vita scorre interamente nelle capanne che vedo di fronte, sotto le palme e nelle risaie.
Rilassamento, accettazione del trascorrere di tutto, come di questa bolla d’aria che passa ora con l’acqua, metafora galleggiante sotto un balconcino di bambù.





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Ma a Phongsavan trovo anche qualcosa di ben diverso che, dopotutto, pure arriva dagli Stati Uniti: un elemento del Laos che non subisce il mondo, ma che sa ritagliarsi il suo spazio e la sua versione possibile di futuro.
Loc è una donna di trent’anni, venti dei quali passati negli USA dove ha studiato e dove aveva un lavoro in una grande azienda a Minneapolis. Sua madre, Kommaly Chantavong, una donna di un villaggio come tanti della provincia di Hua Phah (la più impervia del paese, nelle cui grotte il Pathet Lao aveva stabilito il suo quartier generale durante la rivoluzione), tessitrice come tutte le donne nei villaggi, senza istruzione scolastica, ha fondato Mulberries (www.mulberries.org), una ong che lavora sulla produzione, la lavorazione e la commercializzazione (attraverso il circuito del Commercio Equo/Solidale) della seta con molti villaggi lao. Loc ha avuto la possibilità di crescere e studiare negli Stati Uniti, parla come un’americana ed aveva un buon lavoro, il che non le ha impedito di passare lunghi periodi in Laos e conoscere il suo paese e le motivazioni di sua madre in ciò che stava dietro ai prodotti che anche lei contribuiva a vendere negli USA (tra l’altro, finissime sciarpe di seta cruda filata a mano e tinta con colori naturali). Negli ultimi mesi, però, la crisi globale ha spinto l’azienda dove lavorava a licenziare una quantità di impiegati, tra cui lei. Questa è stata la spinta che l’ha decisa a tornare, convinta di poter fare qualcosa di più utile ed interessante qui che non alla ricerca di un’assunzione precaria negli USA. E’ tornata con grande entusiasmo e mi dice di quanto la seta, tutt’ora la seconda fonte di reddito per i contadini laotiani (dopo il riso), è ancora usata come tessuto d’uso quotidiano nel suo paese e che è proprio sul mercato interno che lei spera di aprirsi uno spazio, non affidandosi completamente alle mode dei paesi ricchi, pur sapendo che sete artificiali d’importazione cinese sono già concorrenti potentissime nello stesso Laos.

La filiera della seta, organizzata in modo da coinvolgere più villaggi nelle diverse fasi, non è solo produzioe di una merce, ma – a partire dall’allevamento delle mucche che fertilizzano il terreno dove crescono i gelsi, le cui foglie alimentano i bachi e poi con la filatura, la tessitura, la preparazione dei colori e la tintura a mano, è soprattutto sistema di vita plurisecolare, garanzia di reddito a partire dalla dimensione di villaggio, continuità di una tradizione, di insediamenti integrati con l’ambiente, di sovranità contadina e comunitaria sui territori, senza per questo dover rinunciare a poter far studiare i figli o a pagarsi le medicine quando servono.

Seguendo Loc nelle sue visite ai produttori vedo dove nascono tessuti di vero pregio e di gran prezzo sul mercato occidentale: dalle mani di contadine che non hanno acqua in casa, che da sempre creano tessuti famosi nel mondo – anche per coloro che non hanno idea di dove vengano.



Questa seta racconta della storia di un popolo e della sua terra, intrecciati ed integrati come la trama e l’ordito del tessuto, ma oggi molte famiglie stanno passando alla coltivazione del mais (transgenico), che viene fornito (come seme) e comprato da aziende straniere ad un prezzo ogni anno più basso, ma sicuro - a differenza della seta, per la quale bisogna trovare mercati che la paghino per il lavoro che richiede.
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Sotto casa del capovillaggio polli e bambini che scorrazzano intorno. La moglie del capo solleva il telo che copre un cesto ampio, ed ecco i bruchi che si muovono stesi su un letto di foglie di gelso tritate: mangiano tre volte al giorno per tre-quattro giorni, poi dormono per altrettanti mentre crescono, poi di nuovo mangiano, poi un’altra pausa, crescono, e così via finchè non fanno il bozzolo, da cui viene la seta. Hanno tempi e fasi: c’è il momento di crescere e quello di fermarsi. E a volte lo stesso fermarsi è crescere. Loro lo sanno.

Estinta una monarchia durata oltre 600 anni, trascorsi i bombardamenti americani e il comunismo, passati i sogni sviluppisti e le crisi economiche globali….spero che ad ogni loro risveglio i bruchi continuino sempre a fare i loro bozzoli e i contadini a filar la seta e le loro donne a tessere queste meravigliose stoffe.
E che ci sia chi vuol viver così, ancora molto molto a lungo, sulle colline laotiane.