martedì 20 ottobre 2015

In Nepal, dopo il terremoto

A volte le cose non succedono secondo i piani previsti prima di trovarsi a realizzarle all'atto pratico. In un Paese come il Nepal si può anche dire che questa sia più la regola che l'eccezione. Dopo il terremoto che ha colpito il Paese himalayano con due terribili scosse ad aprile e maggio 2015 che hanno fatto quasi 9.000 morti (ma ne sono poi seguite quasi altre 500 di superiori alla magnitudo 4 fino alla fine di settembre), insieme a mia moglie Santoshi (nepalese) abbiamo organizzato una raccolta fondi attraverso alcune cene sociali di cucina nepalese ed appellandoci a numerosi amici, conoscenti, amici di amici ed associazioni, molti dei quali hanno risposto generosamente dimostrandoci fiducia, considerando soprattutto che si trattava di una nostra iniziativa personale, autogestita e senza appoggiarci a nessuna organizzazione il cui nome potesse dare una qualche garanzia. Inoltre, nell'operazione "sul campo", siamo stati accompagnati e sostenuti anche da Omar Busatto, che aveva partecipato alla raccolta fondi dal Friuli, da Alessio Costantino, che era già venuto in Nepal immediatamente dopo il terremoto e ci aveva mandato i risultati di un suo primo sopralluogo (da cui è derivata anche la sua ricostruzione di un'altra scuola in un altro villaggio - https://www.facebook.com/kirtipur.devachuli) e mio fratello Francesco Cabras che ha documentato con foto e riprese le varie fasi dell'operazione, oltre ad alcuni dei parenti di Santoshi che ci hanno aiutato in vari modi nei nostri spostamenti e ricerche, particolarmente Abinas Tamang e Ghaman Tamang. L'idea originaria era di portare un aiuto ad alcuni villaggi rurali e con ciò di sostenere le comunità contadine nel riprendersi dalla catastrofe e non abbandonare le montagne per trasferirsi in città (e su questa linea ci siamo tenuti) ma l'idea che vedevamo più probabile era particolarmete quella di ricostruire una scuola nel piccolo villaggio di Baisipati - detto anche Chatture - quasi completamente distrutto (36 case su 40) e piuttosto isolato sebbene a poca distanza da Kathmandu. La capitale, pur nella consueta confusione da "day after" un bombardamento o un'esplosione nucleare che normalmente la caratterizza, non mostrava a prima vista segni evidenti di essere stata colpita così recentemente da un tanto forte terremoto. Soprattutto nella parte centrale più antica della città, intorno alla zona di Ason, di alcuni edifici, ma pochi, erano rimaste solo macerie e così anche per parte dei palazzi e templi storici famosi, sia alla Durbar Square di Kathmandu che a Baktapur. Ma più che altro molte case erano pericolanti, puntellate per tenerle in piedi ed ormai inservibili come abitazioni.
Un aspetto preoccupante è che spesso i proprietari non intendono restaurare questi palazzi storici, ma attendono chi li vorrà comprare così come sono ora, contando sul valore immobiliare dato comunque dalla collocazione molto centrale della zona e questo comporterà con ogni probabilità la loro distruzione e ricostruzione ovvero la fine della Kathmandu storica come l'abbiamo conosciuta finora con tutto il suo fascino che ancora riusciva a conservare - pur in mezzo a tutto il casino del traffico di motorini e carretti - e di essa non rimarranno che i palazzi reali delle piazze centrali (che sono l'attrazione turistica) ricostruiti e circondati da una babele di palazzine nuove regolarmente già in degrado dopo pochi anni. Servirebbero pianificazione e lungimiranza, che però, insieme ai soldi per fare le cose, sembrano essere merce estremamente rara in questo Paese. Qua e là ci sono ancora delle tendopoli, in cui restano rifugiati i più disperati insieme, a quanto si dice, ad altri (altrettanto disperati) venuti dai villaggi che cercano di approfittare della situazione mischiandosi agli sfollati per ottenere la cittadinanza nella capitale.
Secondo il nostro programma, durante i primi giorni - passati soprattutto a visitare i numerosi parenti di Santoshi - abbiamo anche raccolto informazioni sul tipo di struttura più opportuno per le ricostruzioni, sia in termini di economicità che di sostenibilità in caso di terremoto. Il modello che viene più comunemente adottato ora dalle ONG qui non è certo molto bello esteticamente né ha nulla a che fare con lo stile tradizionale, ma è funzionale: si parte da una struttura portante in metallo, leggera, si arriva con le pareti in mattoni fino a circa un metro e mezzo e se ne completa la parte più alta con pannelli di cartongesso o con altri mattoni (il cartongesso è più costoso ma è anche più leggero e quindi non pericoloso in caso di crollo).
L'edificio che ne risulta è facile da realizzare, non comporta grandi rischi per le persone (nel caso dovesse crollare) ed ha un costo (di soli materiali) intorno ai 3.500€ per una stanza sui 20mq completa di tetto in lamiera ondulata (che è ormai il materiale onnipresente per le coperture - e spesso anche per le pareti - dopo il sisma). Col nostro budget avremmo potuto comprare il materiale per una piccola scuola di due classi, sufficiente per la quarantina di bambini del villaggio in cui pensavamo di ricostruirla. Le case tradizionali di pietra sono molto più costose e sono anche resistenti, se fatte bene, mentre sono perlopiù crollate dove erano fatte male, con pietra friabile o con troppa terra rispetto alle pietre. Ed era questo il caso, fra i molti, di Baisipati. Siamo andati a Baisipati con tre motociclette: un viaggio ed una strada che non dimenticherò facilmente per l' estrema difficoltà a percorrerla. Le strade che conducono ai villaggi in Nepal (quando ci sono, perché spesso non c'è altro da fare che camminare su sentieri) in molti casi non verrebero nemmeno definite tali secondo gli standard occidentali: percorsi adatti solo ai trattori o agli appassionati di trekking che invece qui vengono affrontati quotidianamente da autobus stracarichi di gente, mercanzie ed animali fin sul tetto con alla guida niente meno che degli eroi che non di rado devono far scendere tutti i passeggeri per superare qualche tratto particolarmente pericoloso richiando solo la vita propria e non quella di tutti gli altri compagni di viaggio. Le prime strade in assoluto in Nepal sono state fatte negli anni '60: prima proprio non ce n'erano. La prima automobile, giunta nel Paese come oggetto di lusso per il re, è stata portata a Kathmandu a spalla da portatori. Fare strade qui, nella parte montagnosa del territorio, è molto costoso e le finanze pubbliche del Nepal sono particolarmente scarse (oltre che impiegate male ed in modo a dir poco non trasparente): le due cose insieme fanno sì che a tutt'oggi molte località siano raggiungibili solo a piedi (anche giorni a piedi) e pure dove si può arrivare con qualche mezzo il viaggio è sempre lungo e scomodo quando non anche rischioso a causa di frane o delle pessime condizioni dei mezzi. Questa situazione è ovviamente un limite strutturale per qualsiasi sviluppo del Paese e soprattutto per le popolazioni dei villaggi. Arrivati a Baisipati abbiamo trovato il villaggio effettivamente distrutto quasi completamente, la gente vive in baracche fatte di lamiera.
Gli accordi presi nei contatti precedenti erano che noi avremmo pagato i materiali per costruire la scuola e gli abitanti avrebbero contribuito da parte loro con la manodopera, ovviamente a titolo gratuito. Mentre discutevamo con un giovane ingegnere locale lo schema di come sarebbe stato l'edificio, però, è emerso il fatto che gli abitanti volevano essere pagati da noi per fare la scuola per i propri figli. Cambiare le cose dopo aver preso un accordo non è affatto una cosa rara da queste parti - almeno nei confronti di stranieri ed estranei come eravamo noi in questo caso - ma il cambiamento (oltre a non piacerci in sé come modo di recepire il nostro contributo) comportava problemi sia di budget che delle prospettive di utilità che avrebbe avuto il progetto. Con i 7.000€ raccolti saremmo riusciti giusti giusti a coprire l'acquisto dei materiali ma nulla di più (e così destinando solo a Baisipati tutti i fondi a disposizione). Inoltre, la ONG che aveva costruito le baracche in cui ora vive la gente aveva montato anche una struttura in lamiera proprio sul posto dove stavamo discutendo per costruire la nuova scuola.
Una cosa indubbiamente spartana e precaria, ma non peggiore dei rifugi che gli sono rimasti come case e comunque utilizzabile, almeno provvisoriamente, per le lezioni nei mesi passati dal terremoto. La struttura invece non era stata utilizzata finora in nessun modo, dei bambini alcuni andavano a piedi (3 ore tra andata e ritorno) alla scuola del villaggio vicino ma la gran parte non ci andavano affatto. Va detto comunque che (lo abbiamo saputo sul posto) la scuola di Baisipati comprendeva comunque solo la prima elementare, che a noi può sembrare quasi come nulla, ma nel contesto del villaggio in cui i genitori sono pressoché tutti analfabeti, già saper leggere e scrivere farebbe una bella differenza. La questione di fondo è che la scuola del villaggio vicino è governativa mentre questa non lo sarebbe stata: ciò significa che i genitori avrebbero dovuto pagare di tasca propria lo stipendio ad un eventuale insegnante; circa 70€ al mese in totale fra tutti, ma pur sempre soldi liquidi che nel villaggio, a differenza del cibo o di ciò che ci si può produrre direttamente con le proprie mani, sono un bene molto raro e difficile da procurarsi. L'immediatezza dei bisogni dunque fa comprensibilmente sì che gli abitanti non siano portati a vedere il beneficio in prospettiva dell'istruzione - ancorché minima - dei propri figli, né (credo) che capissero bene quale interesse avessimo noi a fargli questa scuola: ciò che ci vedevano era semplicemente un'opportunità di lavoro per qualche giorno e quindi di guadagnare qualcosa. Abbiamo anche preso in considerazione l'ipotesi - invece che costruire la scuola - di garantire lo stipendio all'insegnante per qualche anno: c'era anche un ragazzo, l'unico del villaggio che avesse una minima istruzione e che insegnava al villaggio vicino, che sarebbe stato disponibile, ma abbiamo capito che ciò avrebbe innescato invidie nella comunità ed il fatto che la struttura esistente non era stata affatto utilizzata ci ha convinto a decidere che non fosse quello il modo migliore di impiegare il denaro raccolto. Si può portare un aiuto, ma se la comunità, pur nei limiti delle proprie possibilità, non ha fatto già da sè qualcosa per la propria situazione, credo sia molto improbabile che un progetto che "cade dal cielo" non rimanga qualcosa di estraneo ed inutilizzato - come del resto è il caso, come abbiamo potuto ripetutamente vedere, di molti interventi di varie organizzazioni che restano poi abbandonati e senza alcun seguito. Abbiamo dunque lasciato Baisipati e ci siamo rivolti all'altro villaggio a cui pensavamo di dare un aiuto: Bethan, che è anche il villaggio dove vivono i genitori di Santoshi. Fino a qualche anno fa si raggiungeva solo a piedi (4 ore dopo altrettante di bus da Kathmandu), ora, superato a piedi un ponte sospeso, in jeep collettive (costruite per portare 12 persone, ma che arrancano su per la strada sterrata con anche 25 passeggeri più materiali ed animali vari) che arrivano in un'ora e mezza circa (se tutto va bene).
Bethan è un villaggio molto più grande di Baisipati, le case sparse su un territorio abbastanza ampio ad un'altitudine intorno ai 2.000 metri, circa 4.000 persone, non è stato, fortunatamente, tra i villaggi più colpiti, ma ci sono anche qui case crollate e molti, per la paura data dal ripetersi delle scosse, dormono tuttora sotto le strutture di lamiere, anche se la loro casa è ancora in piedi.
Famiglie contadine, ognuna con un pezzo di terra su cui coltivano senape, mais, miglio, amaranto, riso e con qualche animale: un paio di buoi per arare, uno o due bufali ed alcune capre.
A Bethan il problema più urgente era il serbatoio dell'acqua che ha subìto delle crepe importanti in seguito al terremoto. Questo serbatoio raccoglie l'acqua da una sorgente per tutta una sottodivisione del villaggio (Balwadi).
Bisogna dire che il livello di intraprendenza qui è tutt'altra cosa rispetto al villaggio precedente: il costo stimato per il nuovo serbatoio era di circa 6.000€, ma solo in base alla notizia che l'amministrazione statale avrebbe (non si sa bene quando) contribuito con 2.000€, la gente delle 160 famiglie a cui il serbatoio avrebbe dato l'acqua, si sono organizzate tra loro ed hanno cominciato i lavori, senza sapere veramente come avrebbero potuto poi trovare i soldi per portarli a compimento. Quando noi siamo arrivati era già stata scavata a mano (qui si fa tutto a mano) l'enorme fossa (grande come una casa) e costruite le pareti esterne (in pietra a secco) del serbatoio che sarebbero poi state rivestite da quelle in cemento armato.
Noi abbiamo deciso di contribuire con altri 2.500€ con cui comprare il ferro per l'armatura e gran parte del cemento. Il denaro mancante lo avrebbero messo le famiglie coinvolte nel progetto autotassandosi (essendo in 160 nuclei la cifra per famiglia non era troppo alta) e fornendo ognuna 300kgs di breccia che avrebbero fatto esse stesse a mano. In effetti nei giorni che abbiamo passato a Bethan sempre si sentiva, passando vicino alle case, il rumore del martello che batteva sulle pietre per ridurle in piccoli pezzi e capitava di incontrare gente in giro col martello in mano.
C'è voluta una giornata intera di jeep (altrettanto memorabile di quella in moto) per andare a Montali, capoluogo del distretto di Ramechchaap (di cui fa parte Bethan) a comprare il ferro per l'armatura ed il legno per le casseforme.
Dopo qualche giorno a Bethan, volendo diversificare destinatari e forme del nostro contributo, ci siamo spostati in un altro villaggio, Gale Banjang, questo nel distretto di Nuwakot, in una zona vicina al Langtang (per chi conosce il Nepal), un poco a nord di Kathmandu - mentre Bethan è a sud-est. Il villaggio ci è stato segnalato da un amico nepalese, Tilak Lama, organizzatore di trekking e segretario di una ONG locale (M.E.S.O. - www.facebook.com/mesocompany - http://himaland.com/en/news/nepal-earthquake-victims-help-program.html) di cui è tra i fondatori, in quanto finora scarsamente raggiunto da altri progetti di solidarietà. L'idea qui era di comprare delle capre e distribuirle alle famiglie più povere e colpite dal sisma come fonte di sostentamento sia alimentare (per il latte) che, limitatamente, monetaria, vendendo poi i capretti. Lunga camminata per raggiungere il villaggio, alloggio in una struttura di lamiere presso una famiglia e ricerca insieme a Sunil - collaboratore locale di M.E.S.O. - di chi avesse delle capre da vendere. Comprarle a Kathmandu e poi portarle lì non era proponibile, sia perché quelle degli allevamenti della valle difficilmente si adattano bene in montagna sia perché sarebbe stato difficile trovare un camion per trasportarle a causa di un problema nella reperibilità di carburante di cui dirò più avanti. Inoltre comprarle in loco significava aiutare non solo chi avrebbe ricevuto le capre, ma anche chi le vendeva - che erano poi, in definitiva (ed in misura anche maggiore di quanto immaginavamo, probabilmente, come vedremo), lo stesso tipo di persone. Siamo riusciti a trovare 34 capre tra adulte incinte e giovani, tutte femmine ovviamente e da dare con l'impegno che non sarebbero state uccise nei prossimi due anni, ma tenute per allevamento perché dessero dei figli. I venditori si sono accordati fra loro per un prezzo a forfait di 4.000 rupie per le capre adulte e 3.000 per quelle giovani (approssimativamente 40 e 30 euro) indipendentemente dalla qualità di ogni singolo animale....poi si sarebbero aggiustati fra di loro; fortunatamente per noi, altrimenti saremmo ancora lì a contrattare.
Una volta comprate le capre le abbiamo distribuite ad una lista di famiglie selezionate per condizioni economiche disagiate. E quanto a questo direi che l'operazione è andata a buon fine, dato che sia i venditori che i beneficiari erano molto chiaramente gente povera, che aveva senza dubbio bisogno sia degli animali che dei soldi. E probabilmente li hanno avuti entrambi.
Infatti, ci è venuto un po' il sospetto che in realtà fossero membri delle stesse famiglie quelli che ottenevano i soldi per aver venduto le capre e poi di nuovo le capre stesse. Francamente, arrivando in un villaggio come degli estranei (e per di più stranieri - o accompagnati da stranieri, nel caso di Santoshi) al di là degli aspetti più evidenti non c'è veramente modo di sapere fino in fondo come stiano le cose: in effetti la gente del posto può farci credere ciò che vuole, a meno di non avere i contatti personali ed il tempo necessario ad andare al di là della superficie. Comunque, anche fosse che qualcuno abbia fatto un po' un "gioco delle parti" e si sia fatto regalare le capre che gli avevamo appena comprato, l'obiettivo di dare una mano alle famiglie di contadini poveri del villaggio è stato raggiunto e se qualcuna di esse ha avuto un doppio aiuto, meglio per loro: non era certo di troppo.
D'altra parte - e senza che questo dubbio che ci è rimasto coinvolga in alcun modo la buona fede di Tilak della MESO, il quale al villaggio non ci era ancora mai stato, né il suo collaboratore locale Sunil che si è dato da fare ben oltre il dovuto per far andare tutto al meglio possibile (anche a costo di discussioni con i suoi compaesani) - abbiamo deciso di destinare il resto di quanto avevamo previsto di dare a questo villaggio, non più nell'acquisto di capre ma come contributo alla scuola elementare locale che era crollata lasciando ora i bambini a seguire le lezioni - come al solito - sotto le lamiere e dove avevano bisogno di un minimo di attrezzatura: banchi, lavagne, quaderni, penne ecc....
Ormai i giorni rimasti prima del rientro in Italia erano pochi e siamo tornati a Bethan, dove i lavori del serbatoio erano andati avanti col montaggio del'armatura di ferro.
Ma di cemento ce n'era ancora solo la quantità che avevamo comprato prima perché da un po' di giorni si era creata una situazione in Nepal (protrattasi poi per alcune settimane) molto grave di scarsità di tutti i beni d'importazione a partire soprattutto dai carburanti, ma anche di moltissime altre cose e comunque della possibilità di rifornire i rivenditori in ogni parte del Paese. In questo periodo - e dopo otto anni di discussioni politiche - il Nepal ha adottato la nuova Costituzione (la prima dalla fine della monarchia) che però è avversata dalla minoranza degli abitanti (detti Madeshi) delle pianure del sud, il Terai, detto anche Madesh, che vorrebbero maggiore autonomia (preludio probabilmente ad una futura richiesta di annessione all'India). I Madeshi sono di origine e cultura indiana e popolano la zona più fertile e relativamente produttiva del Nepal, dove si trovano le poche industrie e da cui passano soprattutto le uniche vie di approviggionamento di tutti i beni basilari per l'economia moderna: le strade di comunicazione con l'India, da cui arriva quasi tutto. Dal lato dell'altro dei due giganti tra cui è schiacciato il Nepal, la Cina, il territorio è troppo montagnoso e non ci sono strade utili per trasportare petrolio ed altri rifornimenti. Per cui l'India può di fatto costringere quando vuole questo piccolo Paese in condizioni di carenza dei beni primari esercitando, come in questo caso, un embargo non dichiarato, adducendo che mancherebbero le condizioni di sicurezza per poter lasciar viaggiare i camion a causa delle agitazioni anti-Costituzione nel sud del Paese, sebbene i casi di scontri cruenti siano stati molto limitati, ma riuscendo così ad esercitare una pressione fortissima sul governo nepalese per spingerlo verso i propri interessi. In questi giorni, infatti, si vedevano per le strade di Kathmandu e delle altre città, file anche di due-tre chilometri di moto, auto e bus in attesa anche 30 ore di seguito per ottenere pochi litri di benzina razionata dai distributori presidiati dall'esercito, mentre la stessa era arrivata al mercato nero a quasi 6€ al litro, come sei volte il prezzo normale (in un Paese dove i prezzi in generale sono circa un decimo di quelli italiani).
Il serbatoio di Bethan era dunque già a buon punto quando sono partito, ma doveva aspettare ancora un poco per essere completato. La gente del villaggio ha voluto comunque farci una piccola cerimonia di ringraziamento in cui alcuni degli abitanti di maggior spicco hanno parlato ed in cui anche io sono stato invitato a dire qualcosa.
Cosa che ho fatto ricordando in primo luogo che il contributo che abbiamo dato non veniva solo da noi, ma soprattutto da tante altre persone che non potevano essere lì in quel momento, ma che dall'Italia avevano voluto partecipare a dare un aiuto per le popolazioni dei villaggi nepalesi colpiti dal sisma.
Ed anche che l'aiuto che davamo voleva essere al tempo stesso un incoraggiamento a tener duro e non abbandonare la vita del villaggio, che è la vera dimensione di vita, la vera cultura, economia e salvaguardia della biodiversità e del territorio del Nepal (e probabilmente non solo del Nepal).

lunedì 5 aprile 2010

AIKU IN ZAZEN

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ATTACCAMENTO

Ogni giorno ci sediamo,
soli con la nostra fede.
Eppur non lasciamo la compagnia
del nostro attender la campana.







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STELLA DEL MATTINO

La casa è silente,
le mura sempre là,
mentre la luce si diffonde tutt'intorno.
Tutto sta per cominciare
questo nuovo giorno come ogni giorno pieno
di sottaciute meraviglie,
di invisibili sorprese.
Tutti ancora dormono.
Mentre faccio zazen
sorge una poesia.








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Di momento in momento
la mente che (non) concilia gli opposti se ne va.
Tutto passa, tutto cambia
E solo rimane
l’Eterno Movimento
ben radicato sul posto dove
son seduto immobile.






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In questa sera inquieta
anche l’albero parla,
a folate,
nel vento dei miei pensieri.







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Due cornacchie che discutono,
il rumore di un aereo,
giochi d’ombre sul terreno,
vento tra le foglie
e le stelle
invisibili di giorno.
Tutto è presente insieme
a questo corpo seduto e la sua mente








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Il vento che corre
nel bosco suggerisce
che il pensiero è puro movimento:
l’incessante prender forma e disapparire
delle cellule, della vita,
di stelle, montagne e idee.

Così, dentro e fuori dallo specchio
tutto germoglia,
le foglie cadono
e si spazzano via.







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Grazie a questi mille libri,
a un’odissea d’intelletto,
ho trovato che la verità vive in pancia.
Me lo ha detto il silenzio,
come un suono d’altra riva,
che non avrei ascoltato
al di qua di questo oceano di parole.








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Sul silenzio della notte
ricama un usignolo.
L’ascoltano le noci
stese ad asciugare.







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Seduto
Con le noci stese ad asciugare
Condivido il loro silenzio
e la solidità di queste assi.








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A volte pace, luce
buca le nubi della confusione.
Oasi di serenità
tra pretese di chiarezza.

Non è una risposta





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Canti di rane, d'uccelli e di cicale,
frusciar di foglie
e i ricordi di ieri
fluiscono tra le narici
mentre osservo il respiro.
Sul corpo solido come una montagna
soffia il vento dell'estate.
Simili a muri di sabbia
immersi nell'acqua
le creazioni del pensiero
si sciolgono alle onde della vita.
E non c'è una cosa che sia ferma,
seduto immobile in questa mezz'ora senza tempo
di zazen.






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Stamattina ho fatto una buona meditazione
Mentre fuori il vento soffiava,
la pioggia batteva
e il lavoro aspettava.
Ed io
contento
di stare qui seduto.






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domenica 1 novembre 2009

A Sri Lanka, al tempo dello Tsunami




Lungo la strada costiera che da Colombo porta fino ad Hambantota, due settimane dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 che in pochi minuti si portò via oltre 40.000 vite solo a Sri Lanka, più che le macerie non si vedeva un gran che. Barche sì, fracassate contro ciò che rimaneva di alcune case, e tegole, cocci, stracci, pezzi di legno, di motorini, di serbatoi d’acqua.


Ero arrivato nell’isola proprio la mattina dopo la tragedia: accompagnavo un gruppo di turisti italiani in un viaggio di Turismo Responsabile. Questi viaggi hanno sempre anche un aspetto di solidarietà, ma non ci aspettavamo certo quanto questa sarebbe stata necessaria stavolta!

Ora il gruppo era rientrato finite le ferie ed io avevo un po’ di soldi speditimi da amici da casa che volevano dare una mano alle famiglie locali colpite e me li avevano affidati dato che mi trovavo sul posto e che conosco il paese per diversi viaggi precedenti.

Non si vede la gente” continuava a ripetere l’amico tamil dell’organizzazione umanitaria di Kandy, HDO ( Human Development Organization) con cui stavamo compiendo un lungo viaggio in bus fino a Tangalle sulla costa sud dell’isola.
Pochissima gente in effetti, solo qualcuno che rovistava tra i pezzi di mura a cercar di ritrovarci pezzetti di casa.


Macerie, per cinque ore continue, le immagini che ho negli occhi del viaggio in bus lungo la costa. Mucchi di mattoni rotti e calcinacci e pezzi di travi e resti di mobili e tegole spaccate e stracci e avanzi di moto e biciclette contorte e schegge di barche arrivate fin oltre la strada. E una vecchia, seduta fuori da una tenda improvvisata, a guardare nel vuoto le immagini dei ricordi che le rimangono. E gente che cercava, in mezzo a tutto questo, di ritrovare qualcosa che fosse ancora utilizzabile. In tempo, prima che arrivassero i caterpillar ad aprire un nuovo spazio necessario ad un futuro incerto.


Stanno nei campi “ diceva lui, “hanno paura a tornare”.
Tutte le scuole della costa e molti templi buddisti erano utilizzati come campi per i rifugiati. Parlando con le persone che ci vivevano gli si percepiva negli occhi ancora il muro d’acqua che travolgeva tutto cio’ che trovava, le persone che affogavano, i loro genitori, i loro figli, i vecchi e i bambini soprattutto, meno veloci a cercare rifugio in cima alle palme o sui tetti. La vita rimastagli ora era l’attesa quotidiana di un camion con qualche bandiera sconosciuta che arrivasse nel campo a portare razioni di cibo; la notte, sdraiati sulla terra nuda, spesso l’insonnia, i ricordi, gli incubi ed urla di paura dalle tende vicine.


Tra poco, poi, comincerà il monsone che allagherà tutto puntualmente una volta al giorno. La vita nei campi è difficile perché con la morte di tante persone la struttura su base familiare della società si è disgregata: negli stessi campi vivono a stretto contatto persone che prima dello tsunami erano di condizioni sociali diverse, e qui le caste hanno la loro importanza: non tutti erano poveri, non ugualmente almeno, e per le donne giovani non sposate e le vedove spesso è preferibile cercare rifugio da parenti piuttosto che vivere nel campo anche se così perdono il diritto alle razioni di cibo.


Poi ci sono molti che non hanno perso la casa, ma hanno perso tutti gli strumenti di lavoro, le barche soprattutto, e non sono considerati rifugiati,ma non hanno lo stesso di che guadagnarsi da vivere”.

“Vedi, loro sono gli unici qui che siano organizzati, e si fanno vedere”. Nada, l’amico tamil, mi indicava un tendone sotto il quale era stata allestita una mensa: un gruppo di donne avvolte in sari di poco prezzo, qualcuna col bambino in braccio e qualche uomo col sarong legato sulla pancia facevano la fila verso una serie di pentoloni da cui veniva distribuito riso e curry e a fianco sventolavano le bandiere blu con la scritta bianca del JVP.



Ogni tanto poi lungo la strada incrociavamo camioncini carichi di attivisti con la stessa bandiera. Il Janata Vimukti Peramuna (People’s Liberation Front) e’ il partito comunista-nazionalista che alla fine degli anni Ottanta scatenò, soprattutto nel sud del paese, una insurrezione che fece migliaia di vittime sia da parte dei rivoluzionari che del governo, il quale rispose con una sanguinosa repressione. In seguito è diventato un partito istituzionale, oggi il terzo del paese, molto radicato a livello popolare nelle province meridionali. E’ tuttora un partito piuttosto combattivo, un contrappeso alle tendenze fortemente liberiste e favorevoli agli investimenti stranieri degli altri due grandi partiti, il PA ed in questo senso, soprattutto l’UNP (nello Sri Lanka ci sono alcune Export Processing Zones a statuto speciale tra quelle con le peggiori condizioni di lavoro in Asia ed è uno dei pochissimi paesi dell’area in cui gli stranieri possono acquistare terreni ed immobili ottenendone il 100% della proprietà). Era anche, insieme al partito integralista-conservatore del clero buddista, uno dei principali ostacoli ad una soluzione pacifica del conflitto con le forze indipendentiste dei Tamil del nord-est.
La guerra civile tra l’esercito nazionale e le LTTE (Liberation Tigers for Tamil Eelam, dette le “Tigri Tamil”) finita nel 2009 con la sconfitta dei separatisti era in corso dal 1983 ed ha causato oltre 70.000 morti. Negli ultimi tre anni prima dello tsunami veniva rispettato un cessate il fuoco ottenuto grazie alla mediazione della Norvegia ed alla politica di dialogo di Ranil Wikremesinghe, primo ministro a capo del precedente governo guidato dal UNP (United National Party). Sebbene lo stato di tregua fosse stato, durante questo periodo, sostanzialmente rispettato, le trattative per giungere ad una pace permanente, che potesse dare speranza a questo povero paese di cui la guerra ha consumato per vent’anni percentuali significative del PIL, si sono presto arenate e, se non ci fosse stato lo tsunami, forse al nord avrebbero ricominciato a combattere molto prima di quanto poi hanno fatto. Nada, per il suo lavoro con la ong, si recava spesso nelle zone tamil di Jaffna, Mullaitivu, Batticaloa e mi diceva che la tensione era sempre più alta negli ultimi tempi prima della catastrofe al di qua e al di là della linea che divide le rispettive aree di controllo dell’esercito e delle “Tigri”. “La situazione post tsunami sta riprendendo la stessa tendenza: gli aiuti che giungono da parte del governo nelle zone a maggioranza tamil sono minime rispetto a quelle dei Singalesi e ci sono stati casi di sequestro di camion carichi di cibo destinato ai rifugiati tamil” .

E’ anche significativo che durante le loro visite a Sri Lanka nei giorni successivi allo tsunami né Kofi Annan, né Colin Powell, né Bill Clinton, né Bush senior abbiano potuto visitare il nord-est.
La [allora] presidente Chandrika Bandaranaike Kumaratunga ha creato un ufficio centrale sotto il suo diretto controllo che supervisiona tutti gli aiuti e che, per quanto gli riesce, cerca di gestire direttamente anche i fondi delle ong: l’atteggiamento in pratica è “dateci i soldi che ad usarli ci pensiamo noi”. Ed è forse per contrasti sorti in seguito a ciò che mi è perfino capitato di leggere sui giornali di oltre 100 containers di aiuti bloccati nel porto di Colombo che le ong destinatarie non potevano ritirare a causa delle eccessive tasse doganali mantenute anche sulle donazioni.

“Ma le “Tigri” non sono da meno” continuava Nada: “Hanno costituito la loro centrale per gli aiuti alle vittime, la TRO (Tamil Rescue Organization) e pretendono che nelle loro zone tutto debba passare sotto la loro amministrazione. La gestione del denaro e dei beni che vengono distribuiti è una grande fonte di potere ed un potente mezzo di propaganda, decisivo per il periodo che seguirà. Se ci fai caso tutti quelli che portano aiuti hanno le loro bandiere ben in vista”.
Nada, egli stesso tamil, appartiene a un’altra scuola: la sua ong, HDO , è un gruppo di convinti pacifisti, di ispirazione gandhiana, ed impegnati nel dialogo interetnico; una vera rarità in questo contesto. La missione per la quale lo stavo accompagnando a Tangalle lo testimonia chiaramente: si trattava di un sopralluogo per organizzare una spedizione di aiuti da parte di una organizzazione tamil in un’area totalmente singalese. “Anche noi porteremo le nostre bandiere” mi diceva con un mezzo sorriso “ vogliamo che vedano chi siamo”.

“Specularmente al JVP al sud, l’LTTE è l’unica forza locale veramente organizzata al nord (anche se insidiata da una serie di faide omicide reciproche con altre fazioni tamil scissioniste)” mi spiegava ancora Nada mentre scendevamo dall’autobus strapieno e attraversavamo la piazza della bus station scansando mucche randagie, mendicanti e venditori ambulanti con in braccio cassette di noccioline, frittelle e cartocci di ceci conditi piccanti. “Sono organizzazioni con una struttura paramilitare, capillare e disciplinata, mentre i due grandi partiti istituzionali (PA e UNP) sono più mediatici, più di immagine, con quadri meno motivati, e mancano di organizzazione: la gente non li vede altrettanto presenti nella distribuzione dei beni primari nei campi e sulle strade. I politici locali sembrano essere attenti soprattutto alla propria immagine: c’è chi si è fatto fotografare mentre spalava macerie o consegnava razioni, in molti villaggi colpiti son state fatte cerimonie di posa della prima pietra per le nuove case, con servizi su giornali e tv, ma poi i lavori si sono fermati lì ed è addirittura successo che gli assegni di assistenza che il governo ha distribuito ai rifugiati siano poi, in molti casi, risultati scoperti”.
“E questo avra’ il suo peso. Hai visto nel distretto di Gampaha, vicino Negombo? Non è tradizionalmente una zona del JVP, ma in questi giorni ci sono state le elezioni locali ed hanno vinto loro. Queste cose avranno la loro importanza se ci saranno sviluppi conflittuali in seguito alla piega che sta prendendo qui la politica del dopo tsunami. E’ un passaggio storico, decisivo per noi: una catastrofe inimmaginabile che ha spezzato le gambe ad un paese già povero e al tempo stesso ora un afflusso di denaro e risorse superiore al PIL annuale e tutto ciò in un momento cruciale per un conflitto che dura da più di due decenni!”





Dopo aver dato una mano a Nada ed i suoi collaboratori nella distribuzione degli aiuti ero rimasto a Tangalle per vedere cosa potevo fare io con questi soldi.
Più che dare aiuti primari come cibo ed acqua – a cui provvedevano comunque le grosse organizzazioni - volevo aiutare qualcuno a ricominciare a lavorare. E dato che le persone colpite nella zona, come del resto su tutta la costa, erano principalmente pescatori, ho pensato di vedere se era possibile fornire qualche attrezzatura da pesca.
Dopo alcune ricerche su internet sono entrato in contatto con NAFSO (www.nafso.lk) , un sindacato locale di pescatori su piccola scala collegato al network globale di contadini e pescatori Via Campesina. Loro mi hanno indicato un loro iscritto di riferimento a Tangalle, mr. Vipulasena, un pescatore ed una vittima dello tsunami egli stesso, infatti mi hanno detto che alloggiava in uno dei campi dei rifugiati e quindi non potevano darmi un telefono o un contatto per trovarlo. “Ma sai che Tangalle non è grande, e la gente si conosce”.

Ricordo il momento in cui lungo la strada davanti al porticciolo di Tangalle ho chiesto ad un uomo con addosso solo una maglietta sporca ed un sarong, seduto ai piedi di uno degli edifici distrutti, se conosceva un certo Vipulasena della NAFSO e lui mi ha risposto che era proprio lui. E quando, davanti alla mia reazione un po’ prudentemente sospettosa (si capiva che ero lì per portare aiuti e forse denaro) ha estratto da un mucchio di calcinacci uno striscione mezzo strappato con scritto sopra in caratteri singalesi il benvenuto per il “congresso 2004 per i diritti ed il benessere delle famiglie dei pescatori”… o qualcosa del genere.
Ricordo gli altri pescatori che subito si sono avvicinati ed i loro racconti: barche che entravano spinte dall’acqua dentro le case, i colleghi morti, la paura di tornare al mare anche dopo giorni, la gente che non voleva comprare il pesce per il timore che fosse contaminato dai cadaveri e chi ne approfittava per pagarlo a prezzi da fame. E quelli che erano sulle barche più grandi che stanno fuori diversi giorni e non si erano accorti di nulla perché in alto mare l’onda non aveva potenza distruttrice e quando sono tornati hanno trovato la città distrutta e i morti per le strade.



Vipulasena mi spiegò la differenza tra le varie barche e i diversi sistemi di pesca: ci sono barche da una , due e molte persone e da un solo giorno o da diversi giorni di pesca e in questo caso portano il ghiaccio nello scafo per conservare il pesce. Le prime sono quelle a livello familiare, dei pescatori che lavorano in proprio di cui molti aderiscono alla NAFSO, le altre appartengono a proprietari cittadini ed i pescatori che ci lavorano sono pagati a giornata.
Mi ha fatto vedere i danni alle barche ed ho capito subito che ci volevano ben altre risorse di quelle che avevo a disposizione per pensare ad aggiustarle o ricomprarne di nuove. Quindi abbiamo optato per comprare delle reti da pesca per coloro il cui catamarano (tradizionale barcone con bilanciere) poteva ancora uscire in mare . Lì però non c’era modo di acquistare reti dato che anche le rivendite e le fabbriche di questi articoli erano state travolte dalla catastrofe. Dovevo andare più a nord, a Negombo, e così avrei anche potuto incontrare il segretario nazionale del sindacato che ha lì la sede centrale.
Con il segretario, Herman Kumara, andammo da un grossista di attrezzature da pesca. Ho comprato le reti necessarie al lavoro di 100 famiglie, 50 reti, con ognuna lavorano due pescatori e poi il resto della famiglia vende il pesce, lo secca, ripara le reti ecc… Così ho speso i 2.000 euro che avevo a disposizione, poi loro avrebbero consegnato tutto ad una lista di destinatari concordata con Vipulasena.
Poi mr. Kumara mi ha invitato a casa. Vive fuori Negombo in una zona coltivata a palme da cocco e banani, è cristiano, ma sposato con una moglie buddhista, come mi ha fatto notare lei mentre poggiava l’offerta sull’altare domestico che recava insieme una statuetta di Cristo ed una di Buddha. Un matrimonio interreligioso relativamente frequente nella zona di Negombo che ha una notevole presenza di Cristiani. Le unioni tra Buddhisti e Hindu sono invece molto più rare a causa del ventennale conflitto interetnico fra Singalesi (buddhisti) e Tamil (hindu).
Nella casa c’era una quantità di bambini e parenti e vicini: la famiglia lì è qualcosa di più ampio che da noi.
Mentre mangiavamo l’onnipresente riso e curry, Herman Kumara mi diede una visione più ampia di ciò che stava effettivamente succedendo. In sostanza, secondo lui, ciò che avveniva a Sri Lanka sull’onda dello tsunami è che il potere politico e le maggiori forze imprenditoriali del paese cercavano di usare i fondi destinati alla ricostruzione per una serie di “grandi opere” quali nuove strade, ferrovie e nuovi porti grazie alle quali dar luogo ad una modernizzazione del paese che lo rendesse appetibile per investimenti sia stranieri che locali. In questo modo si sarebbero create le infrastrutture necessarie al cosiddetto sviluppo che – come normalmente avvenuto altrove - sarebbe andato essenzialmente a vantaggio degli investitori ed avrebbe sradicato una gran parte della popolazione dalla propria condizione sociale ed economica tradizionale.
Mi portò un esempio molto chiaro del processo che si andava configurando con la situazione dei pescatori: il governo ha messo il divieto “per motivi di sicurezza” lungo tutta la costa di costruire o ricostruire abitazioni entro 100 metri dalla spiaggia che è dove la maggioranza dei pescatori viveva, ma il permesso rimane tuttora solo per i grandi alberghi. L’intento sembrava quello di consegnare le splendide spiagge dell’isola ad uso esclusivo dell’imprenditoria del turismo di lusso, che è in gran parte di proprietà straniera (a Sri Lanka gli stranieri possono acquistare terreni e immobili mantenendone la proprietà al 100% - cosa quasi unica in questa parte del mondo – e per i grandi investimenti ci sono forti esenzioni fiscali e la possibilità di riesportare i profitti). Fino a quel momento, invece, il turismo era in gran parte a livello di imprenditoria familiare, di piccole pensioni e i cui guadagni si distribuivano tra un vasto numero di persone coinvolte a vario titolo nell’indotto dei servizi ai visitatori.
Parallelamente a questo le donazioni di barche ed attrezzature da pesca che arrivavano come aiuti per lo tsunami da parte di Unione Europea e FAO (cose che da noi non si usano più per la crescente scarsità di pesce) avrebbero reso, insieme alla costruzione di porti moderni, l’economia della pesca dell’isola sempre più dipendente dalle importazioni per i relativi pezzi di ricambio ed accessori. Ed avrebbero messo il pescato disponibile nelle reti di queste barche importate, più grandi ed efficienti e che richiedono un equipaggio più numeroso e specializzato il che è estraneo alla struttura sociale e alle capacità economiche e imprenditoriali delle famiglie di pescatori tradizionali srilankesi i cui membri si sarebbero presto trovati a scegliere tra un lavoro salariato e precario sui pescherecci ed un futuro di “nuovi cittadini” disoccupati nelle baraccopoli di Colombo.
E la cosa più paradossale - mi faceva notare Herman – è che tutto ciò sarebbe avvenuto “grazie” ai fondi che venivano donati non per “modernizzare” il paese, ma per ripristinare la vita delle vittime della catastrofe (in gran parte proprio questi piccoli pescatori) nelle condizioni in cui era prima: è per la morte di decine di migliaia di queste persone che i soldi sono stati dati, non per trasformare il profilo economico del paese!


D’altra parte era evidente quanto la posta in gioco fosse notevole e come già si prendessero misure adeguate a garantirsi il successo dell’operazione se, come riportava il Sunday Leader il 20 febbraio, in tutte le zone colpite l’autorità sui campi profughi era stata messa nelle mani dei militari e posta sotto legislazione speciale d’emergenza. Questa consentiva di arrestare a discrezione dei tutori dell’ordine chiunque “disturbi il funzionamento di servizi essenziali andando così contro l’interesse della sicurezza nazionale”. Secondo questa legge (n.12 del 4 gennaio 2004 – 9 giorni dopo la tragedia – ma resa pubblica solo il 25) la presidente poteva dichiarare un “servizio essenziale” qualsiasi servizio e gli atti considerati reato contro tali servizi comprendevano “lo sciopero, l’istigazione allo sciopero, la distribuzione di manifesti e volantini” e perfino la diffusione di “false informazioni tali da causare pubblico allarme o disordine”.

Quando salutai Herman Kumara gli augurai di cuore buona fortuna anche perché il giorno dopo ci sarebbero state in tutta l’isola una serie di manifestazioni di protesta organizzate dal loro sindacato per contrastare questa politica e richiedere che le risorse fossero usate per aiutare le vittime in ciò di cui hanno realmente bisogno per tornare alla loro vita normale”.

Da allora sono passati cinque anni ed a Sri Lanka sono tornato solo una volta brevemente nel 2007. Lungo la costa molto era stato ricostruito, sebbene parecchie famiglie vivessero ancora nei campi profughi. I piccoli imprenditori del turismo della costa hanno ricostruito in massa quanto possibile indebitandosi e senza tener conto della cosidetta “buffer zone” in cui era vietato edificare, così che il governo ha dovuto ridurla fino a 20-30 metri o accettarne implicitamente un’abolizione di fatto.
I pescatori della Nafso hanno continuato a portare avanti le loro battaglie, arrivando anche recentemente ad ottenere un importante successo con la messa al bando delle tecniche più invasive di pesca ( http://www.asianews.it/index.php?1=it&art=15870 ).
A me, dell’esperienza di quel periodo, è rimasto un certo scetticismo quanto alle grandi operazioni di “aiuti umanitari” ed alle organizzazioni di cooperazione che spesso costituiscono uno dei vari settori del business internazionale. Credo oggi che valga la pena di dare contributi (intendo da parte delle persone più che dei governi - che necessariamente, in situazioni di emergenza, si devono muovere su altre proporzioni) solo a progetti su piccolissima scala, possibilmente gestiti da persone di cui ci sia una conoscenza diretta e che siano alla portata di una verifica su ciò che viene effettivamente fatto. Progetti che abbiano a monte una visione complessiva e critica di ciò che significa “aiuto” e “sviluppo” e non si limitino a puntare sugli aspetti genericamente “umanitari” senza considerare gli effetti, l’integrabilità e la sostenibilità di questi nel contesto specifico del singolo paese.