domenica 1 novembre 2009

A Sri Lanka, al tempo dello Tsunami




Lungo la strada costiera che da Colombo porta fino ad Hambantota, due settimane dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 che in pochi minuti si portò via oltre 40.000 vite solo a Sri Lanka, più che le macerie non si vedeva un gran che. Barche sì, fracassate contro ciò che rimaneva di alcune case, e tegole, cocci, stracci, pezzi di legno, di motorini, di serbatoi d’acqua.


Ero arrivato nell’isola proprio la mattina dopo la tragedia: accompagnavo un gruppo di turisti italiani in un viaggio di Turismo Responsabile. Questi viaggi hanno sempre anche un aspetto di solidarietà, ma non ci aspettavamo certo quanto questa sarebbe stata necessaria stavolta!

Ora il gruppo era rientrato finite le ferie ed io avevo un po’ di soldi speditimi da amici da casa che volevano dare una mano alle famiglie locali colpite e me li avevano affidati dato che mi trovavo sul posto e che conosco il paese per diversi viaggi precedenti.

Non si vede la gente” continuava a ripetere l’amico tamil dell’organizzazione umanitaria di Kandy, HDO ( Human Development Organization) con cui stavamo compiendo un lungo viaggio in bus fino a Tangalle sulla costa sud dell’isola.
Pochissima gente in effetti, solo qualcuno che rovistava tra i pezzi di mura a cercar di ritrovarci pezzetti di casa.


Macerie, per cinque ore continue, le immagini che ho negli occhi del viaggio in bus lungo la costa. Mucchi di mattoni rotti e calcinacci e pezzi di travi e resti di mobili e tegole spaccate e stracci e avanzi di moto e biciclette contorte e schegge di barche arrivate fin oltre la strada. E una vecchia, seduta fuori da una tenda improvvisata, a guardare nel vuoto le immagini dei ricordi che le rimangono. E gente che cercava, in mezzo a tutto questo, di ritrovare qualcosa che fosse ancora utilizzabile. In tempo, prima che arrivassero i caterpillar ad aprire un nuovo spazio necessario ad un futuro incerto.


Stanno nei campi “ diceva lui, “hanno paura a tornare”.
Tutte le scuole della costa e molti templi buddisti erano utilizzati come campi per i rifugiati. Parlando con le persone che ci vivevano gli si percepiva negli occhi ancora il muro d’acqua che travolgeva tutto cio’ che trovava, le persone che affogavano, i loro genitori, i loro figli, i vecchi e i bambini soprattutto, meno veloci a cercare rifugio in cima alle palme o sui tetti. La vita rimastagli ora era l’attesa quotidiana di un camion con qualche bandiera sconosciuta che arrivasse nel campo a portare razioni di cibo; la notte, sdraiati sulla terra nuda, spesso l’insonnia, i ricordi, gli incubi ed urla di paura dalle tende vicine.


Tra poco, poi, comincerà il monsone che allagherà tutto puntualmente una volta al giorno. La vita nei campi è difficile perché con la morte di tante persone la struttura su base familiare della società si è disgregata: negli stessi campi vivono a stretto contatto persone che prima dello tsunami erano di condizioni sociali diverse, e qui le caste hanno la loro importanza: non tutti erano poveri, non ugualmente almeno, e per le donne giovani non sposate e le vedove spesso è preferibile cercare rifugio da parenti piuttosto che vivere nel campo anche se così perdono il diritto alle razioni di cibo.


Poi ci sono molti che non hanno perso la casa, ma hanno perso tutti gli strumenti di lavoro, le barche soprattutto, e non sono considerati rifugiati,ma non hanno lo stesso di che guadagnarsi da vivere”.

“Vedi, loro sono gli unici qui che siano organizzati, e si fanno vedere”. Nada, l’amico tamil, mi indicava un tendone sotto il quale era stata allestita una mensa: un gruppo di donne avvolte in sari di poco prezzo, qualcuna col bambino in braccio e qualche uomo col sarong legato sulla pancia facevano la fila verso una serie di pentoloni da cui veniva distribuito riso e curry e a fianco sventolavano le bandiere blu con la scritta bianca del JVP.



Ogni tanto poi lungo la strada incrociavamo camioncini carichi di attivisti con la stessa bandiera. Il Janata Vimukti Peramuna (People’s Liberation Front) e’ il partito comunista-nazionalista che alla fine degli anni Ottanta scatenò, soprattutto nel sud del paese, una insurrezione che fece migliaia di vittime sia da parte dei rivoluzionari che del governo, il quale rispose con una sanguinosa repressione. In seguito è diventato un partito istituzionale, oggi il terzo del paese, molto radicato a livello popolare nelle province meridionali. E’ tuttora un partito piuttosto combattivo, un contrappeso alle tendenze fortemente liberiste e favorevoli agli investimenti stranieri degli altri due grandi partiti, il PA ed in questo senso, soprattutto l’UNP (nello Sri Lanka ci sono alcune Export Processing Zones a statuto speciale tra quelle con le peggiori condizioni di lavoro in Asia ed è uno dei pochissimi paesi dell’area in cui gli stranieri possono acquistare terreni ed immobili ottenendone il 100% della proprietà). Era anche, insieme al partito integralista-conservatore del clero buddista, uno dei principali ostacoli ad una soluzione pacifica del conflitto con le forze indipendentiste dei Tamil del nord-est.
La guerra civile tra l’esercito nazionale e le LTTE (Liberation Tigers for Tamil Eelam, dette le “Tigri Tamil”) finita nel 2009 con la sconfitta dei separatisti era in corso dal 1983 ed ha causato oltre 70.000 morti. Negli ultimi tre anni prima dello tsunami veniva rispettato un cessate il fuoco ottenuto grazie alla mediazione della Norvegia ed alla politica di dialogo di Ranil Wikremesinghe, primo ministro a capo del precedente governo guidato dal UNP (United National Party). Sebbene lo stato di tregua fosse stato, durante questo periodo, sostanzialmente rispettato, le trattative per giungere ad una pace permanente, che potesse dare speranza a questo povero paese di cui la guerra ha consumato per vent’anni percentuali significative del PIL, si sono presto arenate e, se non ci fosse stato lo tsunami, forse al nord avrebbero ricominciato a combattere molto prima di quanto poi hanno fatto. Nada, per il suo lavoro con la ong, si recava spesso nelle zone tamil di Jaffna, Mullaitivu, Batticaloa e mi diceva che la tensione era sempre più alta negli ultimi tempi prima della catastrofe al di qua e al di là della linea che divide le rispettive aree di controllo dell’esercito e delle “Tigri”. “La situazione post tsunami sta riprendendo la stessa tendenza: gli aiuti che giungono da parte del governo nelle zone a maggioranza tamil sono minime rispetto a quelle dei Singalesi e ci sono stati casi di sequestro di camion carichi di cibo destinato ai rifugiati tamil” .

E’ anche significativo che durante le loro visite a Sri Lanka nei giorni successivi allo tsunami né Kofi Annan, né Colin Powell, né Bill Clinton, né Bush senior abbiano potuto visitare il nord-est.
La [allora] presidente Chandrika Bandaranaike Kumaratunga ha creato un ufficio centrale sotto il suo diretto controllo che supervisiona tutti gli aiuti e che, per quanto gli riesce, cerca di gestire direttamente anche i fondi delle ong: l’atteggiamento in pratica è “dateci i soldi che ad usarli ci pensiamo noi”. Ed è forse per contrasti sorti in seguito a ciò che mi è perfino capitato di leggere sui giornali di oltre 100 containers di aiuti bloccati nel porto di Colombo che le ong destinatarie non potevano ritirare a causa delle eccessive tasse doganali mantenute anche sulle donazioni.

“Ma le “Tigri” non sono da meno” continuava Nada: “Hanno costituito la loro centrale per gli aiuti alle vittime, la TRO (Tamil Rescue Organization) e pretendono che nelle loro zone tutto debba passare sotto la loro amministrazione. La gestione del denaro e dei beni che vengono distribuiti è una grande fonte di potere ed un potente mezzo di propaganda, decisivo per il periodo che seguirà. Se ci fai caso tutti quelli che portano aiuti hanno le loro bandiere ben in vista”.
Nada, egli stesso tamil, appartiene a un’altra scuola: la sua ong, HDO , è un gruppo di convinti pacifisti, di ispirazione gandhiana, ed impegnati nel dialogo interetnico; una vera rarità in questo contesto. La missione per la quale lo stavo accompagnando a Tangalle lo testimonia chiaramente: si trattava di un sopralluogo per organizzare una spedizione di aiuti da parte di una organizzazione tamil in un’area totalmente singalese. “Anche noi porteremo le nostre bandiere” mi diceva con un mezzo sorriso “ vogliamo che vedano chi siamo”.

“Specularmente al JVP al sud, l’LTTE è l’unica forza locale veramente organizzata al nord (anche se insidiata da una serie di faide omicide reciproche con altre fazioni tamil scissioniste)” mi spiegava ancora Nada mentre scendevamo dall’autobus strapieno e attraversavamo la piazza della bus station scansando mucche randagie, mendicanti e venditori ambulanti con in braccio cassette di noccioline, frittelle e cartocci di ceci conditi piccanti. “Sono organizzazioni con una struttura paramilitare, capillare e disciplinata, mentre i due grandi partiti istituzionali (PA e UNP) sono più mediatici, più di immagine, con quadri meno motivati, e mancano di organizzazione: la gente non li vede altrettanto presenti nella distribuzione dei beni primari nei campi e sulle strade. I politici locali sembrano essere attenti soprattutto alla propria immagine: c’è chi si è fatto fotografare mentre spalava macerie o consegnava razioni, in molti villaggi colpiti son state fatte cerimonie di posa della prima pietra per le nuove case, con servizi su giornali e tv, ma poi i lavori si sono fermati lì ed è addirittura successo che gli assegni di assistenza che il governo ha distribuito ai rifugiati siano poi, in molti casi, risultati scoperti”.
“E questo avra’ il suo peso. Hai visto nel distretto di Gampaha, vicino Negombo? Non è tradizionalmente una zona del JVP, ma in questi giorni ci sono state le elezioni locali ed hanno vinto loro. Queste cose avranno la loro importanza se ci saranno sviluppi conflittuali in seguito alla piega che sta prendendo qui la politica del dopo tsunami. E’ un passaggio storico, decisivo per noi: una catastrofe inimmaginabile che ha spezzato le gambe ad un paese già povero e al tempo stesso ora un afflusso di denaro e risorse superiore al PIL annuale e tutto ciò in un momento cruciale per un conflitto che dura da più di due decenni!”





Dopo aver dato una mano a Nada ed i suoi collaboratori nella distribuzione degli aiuti ero rimasto a Tangalle per vedere cosa potevo fare io con questi soldi.
Più che dare aiuti primari come cibo ed acqua – a cui provvedevano comunque le grosse organizzazioni - volevo aiutare qualcuno a ricominciare a lavorare. E dato che le persone colpite nella zona, come del resto su tutta la costa, erano principalmente pescatori, ho pensato di vedere se era possibile fornire qualche attrezzatura da pesca.
Dopo alcune ricerche su internet sono entrato in contatto con NAFSO (www.nafso.lk) , un sindacato locale di pescatori su piccola scala collegato al network globale di contadini e pescatori Via Campesina. Loro mi hanno indicato un loro iscritto di riferimento a Tangalle, mr. Vipulasena, un pescatore ed una vittima dello tsunami egli stesso, infatti mi hanno detto che alloggiava in uno dei campi dei rifugiati e quindi non potevano darmi un telefono o un contatto per trovarlo. “Ma sai che Tangalle non è grande, e la gente si conosce”.

Ricordo il momento in cui lungo la strada davanti al porticciolo di Tangalle ho chiesto ad un uomo con addosso solo una maglietta sporca ed un sarong, seduto ai piedi di uno degli edifici distrutti, se conosceva un certo Vipulasena della NAFSO e lui mi ha risposto che era proprio lui. E quando, davanti alla mia reazione un po’ prudentemente sospettosa (si capiva che ero lì per portare aiuti e forse denaro) ha estratto da un mucchio di calcinacci uno striscione mezzo strappato con scritto sopra in caratteri singalesi il benvenuto per il “congresso 2004 per i diritti ed il benessere delle famiglie dei pescatori”… o qualcosa del genere.
Ricordo gli altri pescatori che subito si sono avvicinati ed i loro racconti: barche che entravano spinte dall’acqua dentro le case, i colleghi morti, la paura di tornare al mare anche dopo giorni, la gente che non voleva comprare il pesce per il timore che fosse contaminato dai cadaveri e chi ne approfittava per pagarlo a prezzi da fame. E quelli che erano sulle barche più grandi che stanno fuori diversi giorni e non si erano accorti di nulla perché in alto mare l’onda non aveva potenza distruttrice e quando sono tornati hanno trovato la città distrutta e i morti per le strade.



Vipulasena mi spiegò la differenza tra le varie barche e i diversi sistemi di pesca: ci sono barche da una , due e molte persone e da un solo giorno o da diversi giorni di pesca e in questo caso portano il ghiaccio nello scafo per conservare il pesce. Le prime sono quelle a livello familiare, dei pescatori che lavorano in proprio di cui molti aderiscono alla NAFSO, le altre appartengono a proprietari cittadini ed i pescatori che ci lavorano sono pagati a giornata.
Mi ha fatto vedere i danni alle barche ed ho capito subito che ci volevano ben altre risorse di quelle che avevo a disposizione per pensare ad aggiustarle o ricomprarne di nuove. Quindi abbiamo optato per comprare delle reti da pesca per coloro il cui catamarano (tradizionale barcone con bilanciere) poteva ancora uscire in mare . Lì però non c’era modo di acquistare reti dato che anche le rivendite e le fabbriche di questi articoli erano state travolte dalla catastrofe. Dovevo andare più a nord, a Negombo, e così avrei anche potuto incontrare il segretario nazionale del sindacato che ha lì la sede centrale.
Con il segretario, Herman Kumara, andammo da un grossista di attrezzature da pesca. Ho comprato le reti necessarie al lavoro di 100 famiglie, 50 reti, con ognuna lavorano due pescatori e poi il resto della famiglia vende il pesce, lo secca, ripara le reti ecc… Così ho speso i 2.000 euro che avevo a disposizione, poi loro avrebbero consegnato tutto ad una lista di destinatari concordata con Vipulasena.
Poi mr. Kumara mi ha invitato a casa. Vive fuori Negombo in una zona coltivata a palme da cocco e banani, è cristiano, ma sposato con una moglie buddhista, come mi ha fatto notare lei mentre poggiava l’offerta sull’altare domestico che recava insieme una statuetta di Cristo ed una di Buddha. Un matrimonio interreligioso relativamente frequente nella zona di Negombo che ha una notevole presenza di Cristiani. Le unioni tra Buddhisti e Hindu sono invece molto più rare a causa del ventennale conflitto interetnico fra Singalesi (buddhisti) e Tamil (hindu).
Nella casa c’era una quantità di bambini e parenti e vicini: la famiglia lì è qualcosa di più ampio che da noi.
Mentre mangiavamo l’onnipresente riso e curry, Herman Kumara mi diede una visione più ampia di ciò che stava effettivamente succedendo. In sostanza, secondo lui, ciò che avveniva a Sri Lanka sull’onda dello tsunami è che il potere politico e le maggiori forze imprenditoriali del paese cercavano di usare i fondi destinati alla ricostruzione per una serie di “grandi opere” quali nuove strade, ferrovie e nuovi porti grazie alle quali dar luogo ad una modernizzazione del paese che lo rendesse appetibile per investimenti sia stranieri che locali. In questo modo si sarebbero create le infrastrutture necessarie al cosiddetto sviluppo che – come normalmente avvenuto altrove - sarebbe andato essenzialmente a vantaggio degli investitori ed avrebbe sradicato una gran parte della popolazione dalla propria condizione sociale ed economica tradizionale.
Mi portò un esempio molto chiaro del processo che si andava configurando con la situazione dei pescatori: il governo ha messo il divieto “per motivi di sicurezza” lungo tutta la costa di costruire o ricostruire abitazioni entro 100 metri dalla spiaggia che è dove la maggioranza dei pescatori viveva, ma il permesso rimane tuttora solo per i grandi alberghi. L’intento sembrava quello di consegnare le splendide spiagge dell’isola ad uso esclusivo dell’imprenditoria del turismo di lusso, che è in gran parte di proprietà straniera (a Sri Lanka gli stranieri possono acquistare terreni e immobili mantenendone la proprietà al 100% - cosa quasi unica in questa parte del mondo – e per i grandi investimenti ci sono forti esenzioni fiscali e la possibilità di riesportare i profitti). Fino a quel momento, invece, il turismo era in gran parte a livello di imprenditoria familiare, di piccole pensioni e i cui guadagni si distribuivano tra un vasto numero di persone coinvolte a vario titolo nell’indotto dei servizi ai visitatori.
Parallelamente a questo le donazioni di barche ed attrezzature da pesca che arrivavano come aiuti per lo tsunami da parte di Unione Europea e FAO (cose che da noi non si usano più per la crescente scarsità di pesce) avrebbero reso, insieme alla costruzione di porti moderni, l’economia della pesca dell’isola sempre più dipendente dalle importazioni per i relativi pezzi di ricambio ed accessori. Ed avrebbero messo il pescato disponibile nelle reti di queste barche importate, più grandi ed efficienti e che richiedono un equipaggio più numeroso e specializzato il che è estraneo alla struttura sociale e alle capacità economiche e imprenditoriali delle famiglie di pescatori tradizionali srilankesi i cui membri si sarebbero presto trovati a scegliere tra un lavoro salariato e precario sui pescherecci ed un futuro di “nuovi cittadini” disoccupati nelle baraccopoli di Colombo.
E la cosa più paradossale - mi faceva notare Herman – è che tutto ciò sarebbe avvenuto “grazie” ai fondi che venivano donati non per “modernizzare” il paese, ma per ripristinare la vita delle vittime della catastrofe (in gran parte proprio questi piccoli pescatori) nelle condizioni in cui era prima: è per la morte di decine di migliaia di queste persone che i soldi sono stati dati, non per trasformare il profilo economico del paese!


D’altra parte era evidente quanto la posta in gioco fosse notevole e come già si prendessero misure adeguate a garantirsi il successo dell’operazione se, come riportava il Sunday Leader il 20 febbraio, in tutte le zone colpite l’autorità sui campi profughi era stata messa nelle mani dei militari e posta sotto legislazione speciale d’emergenza. Questa consentiva di arrestare a discrezione dei tutori dell’ordine chiunque “disturbi il funzionamento di servizi essenziali andando così contro l’interesse della sicurezza nazionale”. Secondo questa legge (n.12 del 4 gennaio 2004 – 9 giorni dopo la tragedia – ma resa pubblica solo il 25) la presidente poteva dichiarare un “servizio essenziale” qualsiasi servizio e gli atti considerati reato contro tali servizi comprendevano “lo sciopero, l’istigazione allo sciopero, la distribuzione di manifesti e volantini” e perfino la diffusione di “false informazioni tali da causare pubblico allarme o disordine”.

Quando salutai Herman Kumara gli augurai di cuore buona fortuna anche perché il giorno dopo ci sarebbero state in tutta l’isola una serie di manifestazioni di protesta organizzate dal loro sindacato per contrastare questa politica e richiedere che le risorse fossero usate per aiutare le vittime in ciò di cui hanno realmente bisogno per tornare alla loro vita normale”.

Da allora sono passati cinque anni ed a Sri Lanka sono tornato solo una volta brevemente nel 2007. Lungo la costa molto era stato ricostruito, sebbene parecchie famiglie vivessero ancora nei campi profughi. I piccoli imprenditori del turismo della costa hanno ricostruito in massa quanto possibile indebitandosi e senza tener conto della cosidetta “buffer zone” in cui era vietato edificare, così che il governo ha dovuto ridurla fino a 20-30 metri o accettarne implicitamente un’abolizione di fatto.
I pescatori della Nafso hanno continuato a portare avanti le loro battaglie, arrivando anche recentemente ad ottenere un importante successo con la messa al bando delle tecniche più invasive di pesca ( http://www.asianews.it/index.php?1=it&art=15870 ).
A me, dell’esperienza di quel periodo, è rimasto un certo scetticismo quanto alle grandi operazioni di “aiuti umanitari” ed alle organizzazioni di cooperazione che spesso costituiscono uno dei vari settori del business internazionale. Credo oggi che valga la pena di dare contributi (intendo da parte delle persone più che dei governi - che necessariamente, in situazioni di emergenza, si devono muovere su altre proporzioni) solo a progetti su piccolissima scala, possibilmente gestiti da persone di cui ci sia una conoscenza diretta e che siano alla portata di una verifica su ciò che viene effettivamente fatto. Progetti che abbiano a monte una visione complessiva e critica di ciò che significa “aiuto” e “sviluppo” e non si limitino a puntare sugli aspetti genericamente “umanitari” senza considerare gli effetti, l’integrabilità e la sostenibilità di questi nel contesto specifico del singolo paese.

mercoledì 30 settembre 2009

Lavoro ed Aiku

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Aiku sul lavoro.
Se non trovo una parola
fatico un altro po’:
le ossa e i muscoli me la diranno
quando mi fermerò





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Potare,
di anno in anno,
potare.
Degli olivi rimane la giusta forma.
di noi…..
…..l’Essenziale





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Comincia a salire
il fumo umido
dalla pira di sterpi
degli olivi potati.
Denso
Come i miei ricordi
se penso a tutti questi anni






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L’ascia alzata si abbatte sul ciocco,
inevitabile.
Il suo filo riprende il posto che gli spetta
tra le due metà del legno
schizzate via.








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Ancora raccolgo
le foglie dell’autunno
…del quale nulla è rimasto.







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SOFFIO

Dal non-dove in cui tutto nasce
la mia mano prende le parole e scrive:
“D’onde son fatti
il vento ed il respiro”.
Poi a sé torna, e a potare
questi getti bassi dell’olivo.









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Sopra il mucchio di rami potati
ali di fiamma danzano
nella nuvola densa di fumo.
Il demonio contorto dei tronchi d’olivo
di nuovo libero di salire al cielo






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Guardo l'avidità del fuoco
mangiarsi le ramaglie
e un fiume di fumo fuggire
inseguito dalle fiamme.
Anche quest'anno ho potato:
tolto qualcosa ch'era in più







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Qualche volta fumo la pipa
e guardo il cielo.
Quando la vita trova un momento per sedersi
a riprender fiato









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mercoledì 9 settembre 2009

Nel paese più bombardato del mondo - il Laos


Pochi chilometri fuori Luang Prabang una specie di agriturismo locale, bei bungalow di legno e tetto di paglia in un gran giardino. Le costruzioni tradizionalmente su palafitte salvano bene dai serpenti, ma non dagli insetti: ho lasciato un pacchetto di noccioline ieri sera sul tavolo ed oggi ho le formiche anche qui sul computer, tra i tasti su cui scrivo. La foresta pullula di vita in ogni dove: il “brodo primordiale” ancora in piena attività.
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Una cosa che colpisce immediatamente del Laos è il senso di equilibrio, una buddhistica via di mezzo tra la comprensibile spinta verso un certo grado di sviluppo e l’amore per il proprio stile di vita atavico, lento e rilassato.





Il Laos confina ad ovest con la Thailandia, ormai proiettata nel sogno consumista consentitole anche dallo svendersi ogni giorno ad orde di turisti con mezzi molto più limitati di quanto non siano le loro pretese e, ad est, con il Vietnam, rampante, tutto dedito al lavoro ed alla crescita, piani sui quali ha trasferito il proprio indomito spirito di combattente con lo stesso entusiasmo oggi, in un capitalismo non dichiarato, che ieri, nel precedente ideale comunista. A sud c’è la Cambogia, mai risorta dallo spesso strato di ceneri umane con cui i Khmer Rossi l’hanno ricoperta, mai ripresasi dai colpi dell’ideologia applicata alla lettera e fuori contesto da Pol Pot ed i suoi (alcuni dei quali si son saputi riciclare abbastanza da star tutt’oggi in parlamento) e dalla strumentalizzazione straniera che è ormai divenuta cronica – dato che la Cambogia vive soprattutto di programmi delle ONG e di investimenti vietnamiti e thailandesi. Al nord due dittature: quella sfacciata e sanguinaria, ma di poco peso internazionale, della Birmania (Myanmar) e quella immensa e sempre un po’ indecifrabile della Cina, gigante del futuro che è già cominciato.

Collocato in questa cornice, il verdeggiante Laos brilla, agli occhi del viaggiatore, per la sua apparente equidistanza da tutti gli eccessi.




Della Cambogia non ha la miseria e la distruzione, né le profonde ferite difficili da rimarginare all’interno della società; della Thailandia non ha la relativa ricchezza e le infrastrutture, ma neanche la corsa al guadagno e al consumo ad ogni costo e col Vietnam condivide il sistema politico a partito unico comunista, ma nel caso del Pathet Lao il potere fu ottenuto – pur dopo anni di combattimenti - con un golpe incruento quando cinquanta soldatesse “presero” simbolicamente la capitale Vientiane e la sua fase di accentramento statalista e di economia pianificata con abolizione della proprietà privata finì di fatto prima che si fosse compiuto il primo piano quinquennale. Della Birmania non ha, per sua fortuna, una banda di assassini al potere e, della Cina….non potrebbe essere che una piccolissima provincia.



C’è un noto adagio popolare, coniato dai Francesi quando colonizzarono questa parte del mondo, secondo cui i Vietnamiti piantano il riso, i Cambogiani stanno a guardarlo crescere, i Laotiani ascoltano la musica del riso che cresce (e – si potrebbe aggiungere - …. i Cinesi lo raccolgono e lo vendono). Come ogni adagio si tratterà soprattutto di un luogo comune, però – come in tutti i luoghi comuni – ci si può trovare anche del vero.

Il Laos non ha grandi risorse: un po’ di agricoltura e di legname, ma un’industria insignificante – su standard di “sviluppo” – e nessun accesso al mare, per un totale di circa 1500 euro di reddito annuo pro capite. Però ha una popolazione ridotta, meno di 6 milioni di abitanti, e non ci sono grandi città: delle tre più grandi Vientiane ne conta 250.000, Luang Prabang 30.000 e Pakse 60.000; gli altri centri da noi sarebbero poco più che dei paesotti. In totale la popolazione che si può dire urbanizzata non arriva a un 10%.



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Nell’autobus da Pakse verso sud, seduto nel posto stretto adatto alla statura media asiatica, guardo un po’ il videoclip sul televisore fissato sopra il posto dell’autista. L’immagine si blocca spesso frammentandosi in quadratini colorati, ma quando scorre mostra i sogni globali arrivati anche qui cantati da un buffo personaggio in giacche sgargianti, che fa pensare a un venditore di palloncini al luna park, circondato da ballerine abbigliate in stile vagamente moulin rouge che accennano movimenti tradizionali lao. I video raccontano di amori struggenti, gelosie e tradimenti che viaggiano via sms su cellulari e motorini ultimo modello e che vengono risolti grazie ad interventi di plastica facciale e body building. Le felicità a buon mercato sulle quali è ovunque umano farsi delle illusioni.
Fuori dal finestrino contadini, bufali e risaie ed un monastero buddhista circondato da uno stagno pieno di fiori di loto.




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Questo vuol dire che gran parte della popolazione è rimasta nelle campagne, nei villaggi, che è rimasta contadina, che non c’è stato quello sradicamento dalla terra e da una vita tradizionale ed adattata all’ecosistema per riversarsi nelle periferie metropolitane che ha sconvolto ed immiserito molte società asiatiche e del Terzo Mondo.

Questo credo voglia dire che la gente di qua ha una forte identità legata alla propria terra e al proprio stile di vita e che non è così pronta a correre dietro al primo specchietto per le allodole: i Laotiani sono noti per amare una certa godibilità nella vita e vedere con sospetto attività stressanti ed egoistiche finalizzate totalmente al profitto.
Ma deve esser anche segno che pure le scelte politiche del governo hanno permesso a questo popolo di continuare a vivere della terra e del proprio stile di vita tradizionale; che si son creati (protetti, mantenuti) i presupposti per rendere ciò possibile, ovvero che, al contrario di quanto è avvenuto più spesso altrove, non si son creati i presupposti contrari.

Con l’instaurazione del sistema comunista son state confiscate e redistribuite le terre non coltivate, ma chi coltivava direttamente il proprio appezzamento lo ha mantenuto in usufrutto e poi in proprietà e le prime riforme del nuovo corso “post-ortodossia statalista” sono andate nella direzione di aiutare la gente dei villaggi a migliorare la propria condizione. E tuttora oggi la prudenza che il governo segue nei confronti dell’apertura – ancora piuttosto limitata – agli investitori stranieri, mantiene il paese con un ridottissimo settore industriale (sebbene ci siano importanti risorse idroelettriche e minerarie quali oro, argento e carbone) e con un’economia fondamentalmente agricola non estensiva, dato anche che la conformazione collinare del territorio non lo consentirebbe comunque.
Onestamente, non è che mi sia messo a far ricerche approfondite sull’economia e la società laotiana, però posso registrare ciò che percepisco dal mio punto di vista di viaggiatore coinvolto in qualche misura anche professionalmente nel turismo.
In tutta l’area del nord dell’Indocina, una delle principali attività turistiche è costituita da trekking ed escursioni sulle montagne e nei villaggi dove vivono i cosiddetti “montagnards” , ovvero le etnie tribali di Birmania, Thailandia, Laos, Vietnam e della regione cinese dello Yunnan: vera e propria “attrazione” voyeuristico-culturale a causa dei loro costumi tradizionali, del loro artigianato e delle loro abitazioni tipiche.

Intorno alla presenza di queste minoranze etniche gira un business su cui guadagnano in molti operatori e lavoratori del turismo, soldi che – in un modo o nell’altro - vanno ad alimentare anche l’economia generale di questi paesi e le finanze delle amministrazioni pubbliche, ma che non porta pressochè alcun guadagno alle popolazioni interessate le quali restano al centro di questo fenomeno solo come soggetti fotografici in costume, vero nocciolo duro – loro malgrado – di tutto il business.

Viaggiando in Vietnam, ad esempio, ho pensato spesso che sarebbe giusto se fosse istituita una tassa sulle fotografie da far pagare ad ogni turista che entri nei territori a forte presenza tribale il cui ricavato fosse interamente destinato alle comunità locali (e specialmente alle donne, che sono poi quelle che ancora portano regolarmente l’abito tradizionale – ovvero il vero motivo per cui i turisti si spingono fin lì - ma che sono anche coloro che amano meno essere fotografate).

Una simile tassa darebbe un dovuto ritorno a chi permette con la sola propria presenza significativi guadagni ad imprenditori spesso del tutto estranei al luogo - evitando al tempo stesso l’umiliazione di chiedere pochi spiccioli al singolo turista per lasciarsi fotografare - e sarebbe pure un riconoscimento del valore e dell’apprezzamento internazionale (quantomeno estetico) di determinati tratti culturali e di chi li mantiene oltre a poter essere destinata ad organizzazioni di base locali ed ai loro progetti anzichè andare – com’è per l’elemosina - ai singoli che accettano di vendere di volta in volta la propria immagine (quand’anche riescano a farsi pagare qualcosa per questo – il che non è affatto scontato).

In Thailandia poi, la situazione è perfino peggiore: il turismo al nord è nato e si è sviluppato in massima parte grazie alle etnie tribali ed è cresciuto senza alcuna regolamentazione né pianificazione ad opera di imprenditori per lo più provenienti dalle grandi città ed estranei ai popoli interessati. In un territorio che non poteva avvantaggiarsi delle stupende coste che abbondano nel resto del paese, la presenza delle minoranze etniche delle montagne con la loro peculiare cultura è stata sfruttata alla stregua di una miniera d’oro fino ad esaurirne di fatto il filone, al posto del quale rimangono oggi i segni del saccheggio nei molti tribali che continuano a mimare le proprie tradizioni ad uso e consumo dei turisti (sebbene ci siano pure gruppi che si muovono in senso contrario come IMPECT (Inter Mountain Peoples Education and
Culture in Thailand Association - vedi:
http://www.indigenousportal.com/Self-Determination/-Promoting-and-protecting-the-rights-of-Indigenous-and-Highland-Ethnic-Peoples-in-Thailand.html).
Di fronte all’esperienza dei paesi vicini, il Laos, nell’aprirsi al turismo, ha optato per delle linee differenti. A partire dalla Provincia di Luang Nam Tha (settentrionale e montana, a forte presenza tribale) l’amministrazione pubblica ha preso in mano la situazione: alcuni anni fa tutte le attività turistiche escursionistiche e di trekking private sono state vietate ed è stato fondato un Ecotourism Project (http://www.unescobkk.org/culture/our-projects/sustainable-cultural-tourism-and-ecotourism/namha-ecotourism-project/) che ha stabilito un codice di condotta (in linea con quello del Turismo Responsabile) sia per gli operatori che per gli stessi turisti che per gli abitanti dei villaggi interessati; le guide sono state formate con appositi corsi ed hanno dovuto ottenere l’autorizzazione provinciale per poter lavorare; la pianificazione e la gestione dei percorsi di trekking è stata concordata insieme con le comunità dei villaggi: solo quelle che si son mostrate interessate ad accogliere turisti. Sono state stabilite regole per lo smaltimento dei rifiuti e per la redistribuzione dei profitti, c’è un numero massimo per le dimensioni dei gruppi di visitatori. Dopo alcuni anni di sperimentazione ed implementazione del progetto e di attenzione ai feedback che venivano dalle varie parti interessate si è passati dal monopolio pubblico all’autorizzazione di un certo numero di agenzie private che restano però tenute a rispettare lo stesso codice di condotta e che devono impiegare solo guide autorizzate. Il turismo fai da te, nelle zone delle comunità tribali, non è permesso. Il progetto ha avuto un notevole successo e si sta estendendo a diverse altre province su tutto il territorio nazionale.
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Guardo sempre fuori dal finestrino del bus: campagne, villaggi e paesetti. Il Laos è tutto una grande provincia, un paese interamente di provincia, senza una metropoli, ma non è un paese provinciale: perché non cerca di essere qualcosa che non è, non scimmiotta nessuno ritenuto tale da sentirsi migliori non appena si acquisisce un tratto simile ai suoi, perfino uno dei più discutibili. In questo senso l’Italia, terra un tempo di una “caput mundi”, ed oggi sempre attenta a stare al passo/correr dietro ai “grandi” dell’Occidente, è molto più provinciale di questa piccola repubblica dimenticata alla periferia dell’impero – che forse proprio al tenersi così in disparte deve la sua salute.

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In questo modo il Laos riesce finora a preservare sia la natura che la cultura di queste zone il che significa anche mantenerle come una risorsa economica permanente col duplice effetto di sviluppare in modo sostenibile e durevole le proprie risorse nel settore turistico e di far sì che questo controbilanci la carenza che c’è in altri quali quello industriale – due aspetti di un unico mantenimento della qualità della vita. Si tratta, intelligentemente, di valorizzare in modo lungimirante ciò che si ha, senza spremerlo stile “usa e getta”, evitando di stravolgere l’ecosistema in cui si vive e la vita della gente, senza rincorrere miraggi estranei alla propria realtà, alle proprie possibilità ed anche alla propria cultura.



L’intelligenza degli amministratori laotiani è stata quella di prendere il fenomeno e dargli una decisa impostazione quando era ancora agli inizi perché, una volta che il business turistico selvaggio ha preso il sopravvento ed ha procurato i suoi effetti ambientalmente e culturalmente stravolgenti e sradicanti, non c’è più molto da fare.

Quando la gente si è convinta che l’unico modo per migliorare un poco la propria condizione sia quello di gettare alle ortiche ciò che si ha e ciò che si è da sempre, non potrà che essere tutto il ciclo delle conseguenze ha mostrare i pesanti effetti collaterali di questa scelta, un ciclo che può durare diverse generazioni durante le quali si saranno bruciate le risorse necessarie per pagare il salato conto che la realtà dei fatti presenterà alla fine.


Il Laos sembra aver osservato e compreso quanto stava accadendo nei paesi confinanti, sembra aver imparato la lezione dagli errori di chi ha affrontato in precedenza gli stessi passaggi ed aver agito per tempo: quanto di meglio ognuno dei cosidetti “paesi in via di sviluppo” dovrebbe fare. Ma davanti a ciò non possiamo non chiederci se questo non sia stato possibile solo nelle condizioni politico-economiche in cui un paese come il Laos si trova: quelle di un paese non ancora “sviluppato” e guidato da un partito unico che ha vinto una rivoluzione popolare. Potrebbe fare altrettanto un regime modellato sulla falsariga di quelli occidentali in un paese del Terzo Mondo? Lo potrebbe fare anche solo una delle stesse ricche democrazie occidentali? Governare certi processi prima che sfuggano di mano non consente troppo spazio per tergiversare e, una volta che questi hanno portato i loro cambiamenti nella società e nella mentalità, non c’è più molto che possa esser fatto per recuperare quanto si è perduto.
Con ciò non voglio ignorare che anche in Laos c’è corruzione e che ci sono state vendette contro minoranze etniche come i H’mong (che hanno combattuto i comunisti per conto ed al soldo della CIA con la promessa di avere poi uno stato indipendente con territori da sottrarre a Laos e Vietnam). Né si può negare che ci sono state violazioni dei diritti umani, specialmente in passato contro i sostenitori del re e delle forze della destra (internati, anche per anni, in campi di “rieducazione”) e neppure che, a tutt’oggi, non è dato alla popolazione sapere quali siano le scelte del governo per il prossimo futuro né quali siano i dibattiti interni in corso. Però – e senza dimenticare che anche nelle nostre democrazie sviluppate non è certo tutto oro quel che riluce - registro il fatto che dalla realtà del Laos emergono alcune condizioni che, quando si ritrovano insieme nella realtà di un paese, possono permettere di seguire una “via di mezzo” equilibrata tra sviluppo e povertà e di mantenere una certa misura necessaria di controllo sui processi storici di trasformazione a livello locale.
Queste caratteristiche che il caso del Laos ci mostra sono che si tratta di:
- una economia fondamentalmente basata sull’agricoltura familiare su piccola scala (e in cui, di conseguenza, gli altri settori economici sono tarati a misura di questo segmento centrale – che è pure la condizione di vita della stragrande maggioranza della società);
- una popolazione di numero limitato;
- una cultura in cui non c’è stata una frattura irrimediabile con la tradizione;
- una forma di governo in cui il sistema e la visione di fondo non possono essere messi in discussione.


A stemperare l’orrore che in alcune persone potrebbe provocare il quarto punto vorrei aggiungere che :
- credo sia immaginabile che in ogni partito unico, da che mondo è mondo, non ci sia mai stata una univoca uniformità di vedute, ma che, anche lì, ci sia sempre e comunque una dialettica interna tra una varietà di posizioni – anche se, certo, varie solo entro certi limiti;
- il fatto che l’unità politica corrisponda ad una popolazione limitata nel numero e anche ad un territorio limitato – ovvero che rimanga nella dimensione del locale – insieme ad un sistema economico semplice, non troppo sviluppato e pertanto non troppo complesso – ovvero che rimanga alla portata - anche di comprensione quanto ai suoi meccanismi interni - da parte della generalità della popolazione – potrebbe permettere un certo grado di controllo democratico anche in un sistema politico con una costituzione che non permetta margini troppo ampi per mettere in discussione alcuni principi fondamentali. Questo è un modello ipotetico, e non so dire quanto il caso del Laos ci si avvicini, ma potrebbe essere un sistema possibile in una nazione/unità politica di piccole dimensioni (in territorio e popolazione) retta da un regime a partito unico all’interno del quale ci sia spazio per diverse liste, mozioni o istanze particolari.

Questo tipo di controllo democratico a livello locale non so dire quanto sia presente in Laos, onestamente, e posso immaginare che non ce ne sia un gran che, ma qui non si tratta di esaltare il paradiso di una qualche utopia realizzata di turno e pertanto non credo ciò tolga nulla a quanto da questo paese possiamo trarre come elemento di ispirazione e riflessione e per trovarvi qualcosa da imparare.

Oltre al fatto di chiederci se tutto ciò sia comunque possibile al di là di un certo limite di sviluppo: il Laos ha ancora una popolazione in cui la società si riconosce in una cultura comune tradizionale condivisa sostanzialmente dalla generalità delle persone delle varie provenienze locali e delle diverse generazioni ed oltre a ciò la stessa relativa povertà, un autoregolante principio di necessità, rende immediatamente percepibile ad ognuno l’importanza di una certa solidarietà, rispetto reciproco, armonia sociale dato il bisogno di collaborare ed una certa dipendenza e bisogno reciproci diffusi (a questo va aggiunto che apparentemente nel paese esiste una certa misura di livellamento economico-sociale: non si vedono differenze eclatanti di status symbols e non si incontrano pressoché mendicanti né prostituzione – eccetto un minimo nella zona turistica della capitale).

Questi due elementi garantiscono ancora un importante grado di compattezza sociale che livelli maggiori di ricchezza vanno poi a minare, sia per il venir meno della necessità di darsi una mano reciprocamente sia per l’aprirsi di spazi individuali di diversificazione culturale e di valori di riferimento divergenti ed a volte opposti all’interno della stessa società.

Forse quei processi che un paese come il Laos è ancora in grado, con intelligenza e lungimiranza, di gestire, noi li abbiamo già superati da un pezzo e dovrà prima giungere, dalle condizioni oggettive che abbiamo creato, la lezione (questa sì temo non tanto “democratica” né attenta ai “diritti umani”) delle conseguenze della nostra miope opulenza ad insegnarci qualcosa.
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Girando in bici tra le risaie ed i palmeti nell’isola di Don Khon, osservo i contadini intenti a trapiantare il riso, i bambini che piazzano piccole trappole per le rane e le donne al telaio all’ombra sotto il pavimento delle case su palafitte. Da qualche finestra a cui è appesa a sventolare la bandiera rossa con falce e martello si sente la musica commerciale dei videoclip che vedevo nel bus.



E penso a questo popolo gentile, sovranamente pacato, e alla sua sovranità e a come l’ ha guadagnata con una piccola rivoluzione dimenticata dalla Storia, pagata ad alto prezzo in vite umane dimenticate dalla cronaca. Gente leale, che ha sostenuto la parte giusta, aiutando i guerriglieri di un popolo fratello nella loro lotta eroica di Davide contro Golia. Lotta vittoriosa, che i Vietnamiti, gente di ben altra pasta che i Laotiani, non avrebbero potuto (nonostante gli oggettivi rapporti di forza) non vincere – a meno che non si fosse deciso di massacrarli tutti, fino all’ultimo uomo, fino all’ultima vecchietta. I Laotiani li hanno aiutati, dandogli cibo e rifugio, e lasciandoli passare sui loro sentieri nella foresta, sentieri che conoscevano solo loro e gli animali selvatici che li abitavano. Sentieri sui quali i tecnologici soldati americani ben si guardarono dallo spingersi – lasciando fare alle bombe: credevano di averne più che a sufficienza, ma due milioni di tonnellate non sono bastate a piegare questa gente. Come tre milioni di morti non sono bastati al Vietnam.
I Laotiani però non hanno preso più di tanto parte attiva a quella fase in cui tutta la regione era a ferro e fuoco. Ed ha fatto presto, il loro governo, a capire che non si può spazzar via per decreto la cultura e la tradizione di un popolo per sostituirle con ideologie d’importazione.



Bambini e adulti mi salutano al passaggio: per quel che ne sanno, potrei benissimo essere americano. Non importa: tutte le cose arrivano, prendono forma e poi vanno, come quei piccoli vortici che si formano brevemente, nell’acqua del Mekong.

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D‘altra parte, che la maggioranza dei Laotiani si tengano abbastanza di buon grado questo regime non democratico, lo possiamo capire meglio anche se andiamo a vedere ciò che il paese-campione della democrazia occidentale e del suo successo mondiale ha fatto al piccolo Laos.
Nella provincia di Xiengkhouang, vicino la città di Phongsavan (come anche in diverse altre zone lungo il confine col Vietnam) passava il “sentiero di Ho Chi Mhinh”, il percorso che i Viet Cong seguivano per portare armamenti e rifornimenti dal Vietnam del Nord comunista a quello del Sud sotto il controllo degli USA. Il Pathet Lao (partito comunista laotiano) e la popolazione locale permettevano il passaggio ed aiutavano i guerriglieri vietnamiti che approfittavano della fitta foresta e delle numerose caverne per cercare di passare inosservati. L’esercito USA si tenne alla larga dal tentare un’offensiva di terra in un territorio così pericoloso ed appartenente ad un paese formalmente neutrale, ma, sulla terra, la CIA foraggiò un esercito segreto formato dai tribali H’mong promettendogli un irrealizzabile stato H’mong (come fece poi con i mujaheddhin afghani e tanti altri gruppi armati nel mondo) che piccoli gruppi di disperati ancora perseguono nascosti nella jungla e, dall’aria, scaricò 2 milioni di tonnellate di bombe di ogni tipo (più che in ogni altro paese al mondo in ogni guerra nella Storia: equivale a 350 chili per ogni abitante compresi vecchi e bambini oppure al carico di un bombardiere gettato ogni 8 minuti per 24 ore al giorno per 9 anni) su questo piccolo paese non belligerante.
A Phongsavan una ong (MAG – Mines Advisory Group = www.maginternational.org) lavora ancor oggi, a trentaquattro anni di distanza, a disinnescare le bombe inesplose che tuttora mietono vittime tra la gente del posto e limitano fortemente la possibilità di estendere le terre coltivabili data la probabilità di morire su qualche ordigno. Durante il tempo dei bombardamenti (come per altre operazioni più recenti, formalmente non si poteva parlare di guerra) gli abitanti di questa zona dovettero vivere nascosti, ammassati nelle grotte ed uscire a coltivare le risaie solo di notte. Le grotte servivano anche come ospedali, ma ciò non risparmiò i laotiani che vi si rifugiarono dall’essere bersagliati dai missili americani già allora “intelligenti” abbastanza da infilarsi nelle cavità ed esplodervi dentro facendo anche centinaia di vittime in un colpo solo.
Tutto ciò è ben documentato in un video (http://www.itvs.org/shows/ataglance.php?showID=7321) che questa ong internazionale proietta ogni giorno nel suo ufficio in città, come pure dai numerosissimi resti di bombe che si offrono alla vista del viaggiatore sia nell’ufficio turistico locale che nei diversi usi con cui l’inventiva dei laotiani è riuscita a riciclarli: dalla base di sostegno per un serbatoio d’acqua, a un lungo vaso sospeso fuori casa per piantarvi le cipolle, fino a pali di sostegno per le recinzioni.



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A Si Phan Don, le “quattromila isole” nel sud del Laos al confine con la Cambogia.
Una stanza galleggiante di legno e di bambù sul Mekong, Su una sdraio sul balconcino a filo d’acqua, lascio scorrer via la stanchezza del viaggiare con la vista delle acque marrone rossastro. Il fiume porta il suo dono di detriti fangosi fin dal Tibet ad alimentare il vasto delta, in Vietnam, dove i contadini riescono a fare anche tre raccolti di riso l’anno.
Le acque fluiscono lente e veloci al tempo stesso, inesorabili, tra me , che son di passaggio, e quella famiglia di cui sento le voci, la cui vita scorre interamente nelle capanne che vedo di fronte, sotto le palme e nelle risaie.
Rilassamento, accettazione del trascorrere di tutto, come di questa bolla d’aria che passa ora con l’acqua, metafora galleggiante sotto un balconcino di bambù.





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Ma a Phongsavan trovo anche qualcosa di ben diverso che, dopotutto, pure arriva dagli Stati Uniti: un elemento del Laos che non subisce il mondo, ma che sa ritagliarsi il suo spazio e la sua versione possibile di futuro.
Loc è una donna di trent’anni, venti dei quali passati negli USA dove ha studiato e dove aveva un lavoro in una grande azienda a Minneapolis. Sua madre, Kommaly Chantavong, una donna di un villaggio come tanti della provincia di Hua Phah (la più impervia del paese, nelle cui grotte il Pathet Lao aveva stabilito il suo quartier generale durante la rivoluzione), tessitrice come tutte le donne nei villaggi, senza istruzione scolastica, ha fondato Mulberries (www.mulberries.org), una ong che lavora sulla produzione, la lavorazione e la commercializzazione (attraverso il circuito del Commercio Equo/Solidale) della seta con molti villaggi lao. Loc ha avuto la possibilità di crescere e studiare negli Stati Uniti, parla come un’americana ed aveva un buon lavoro, il che non le ha impedito di passare lunghi periodi in Laos e conoscere il suo paese e le motivazioni di sua madre in ciò che stava dietro ai prodotti che anche lei contribuiva a vendere negli USA (tra l’altro, finissime sciarpe di seta cruda filata a mano e tinta con colori naturali). Negli ultimi mesi, però, la crisi globale ha spinto l’azienda dove lavorava a licenziare una quantità di impiegati, tra cui lei. Questa è stata la spinta che l’ha decisa a tornare, convinta di poter fare qualcosa di più utile ed interessante qui che non alla ricerca di un’assunzione precaria negli USA. E’ tornata con grande entusiasmo e mi dice di quanto la seta, tutt’ora la seconda fonte di reddito per i contadini laotiani (dopo il riso), è ancora usata come tessuto d’uso quotidiano nel suo paese e che è proprio sul mercato interno che lei spera di aprirsi uno spazio, non affidandosi completamente alle mode dei paesi ricchi, pur sapendo che sete artificiali d’importazione cinese sono già concorrenti potentissime nello stesso Laos.

La filiera della seta, organizzata in modo da coinvolgere più villaggi nelle diverse fasi, non è solo produzioe di una merce, ma – a partire dall’allevamento delle mucche che fertilizzano il terreno dove crescono i gelsi, le cui foglie alimentano i bachi e poi con la filatura, la tessitura, la preparazione dei colori e la tintura a mano, è soprattutto sistema di vita plurisecolare, garanzia di reddito a partire dalla dimensione di villaggio, continuità di una tradizione, di insediamenti integrati con l’ambiente, di sovranità contadina e comunitaria sui territori, senza per questo dover rinunciare a poter far studiare i figli o a pagarsi le medicine quando servono.

Seguendo Loc nelle sue visite ai produttori vedo dove nascono tessuti di vero pregio e di gran prezzo sul mercato occidentale: dalle mani di contadine che non hanno acqua in casa, che da sempre creano tessuti famosi nel mondo – anche per coloro che non hanno idea di dove vengano.



Questa seta racconta della storia di un popolo e della sua terra, intrecciati ed integrati come la trama e l’ordito del tessuto, ma oggi molte famiglie stanno passando alla coltivazione del mais (transgenico), che viene fornito (come seme) e comprato da aziende straniere ad un prezzo ogni anno più basso, ma sicuro - a differenza della seta, per la quale bisogna trovare mercati che la paghino per il lavoro che richiede.
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Sotto casa del capovillaggio polli e bambini che scorrazzano intorno. La moglie del capo solleva il telo che copre un cesto ampio, ed ecco i bruchi che si muovono stesi su un letto di foglie di gelso tritate: mangiano tre volte al giorno per tre-quattro giorni, poi dormono per altrettanti mentre crescono, poi di nuovo mangiano, poi un’altra pausa, crescono, e così via finchè non fanno il bozzolo, da cui viene la seta. Hanno tempi e fasi: c’è il momento di crescere e quello di fermarsi. E a volte lo stesso fermarsi è crescere. Loro lo sanno.

Estinta una monarchia durata oltre 600 anni, trascorsi i bombardamenti americani e il comunismo, passati i sogni sviluppisti e le crisi economiche globali….spero che ad ogni loro risveglio i bruchi continuino sempre a fare i loro bozzoli e i contadini a filar la seta e le loro donne a tessere queste meravigliose stoffe.
E che ci sia chi vuol viver così, ancora molto molto a lungo, sulle colline laotiane.


Note da un viaggio in Uttarakhand (India)

NOTE DA UN VIAGGIO IN UTTARAKHAND (INDIA)



HARIDWAR


Seduto sulla riva del Gange guardo i gradini del ghat che scendono verticali nel fiume.
Il fiume, però, scorre orizzontale.

Rappresentano un percorso graduale, in passi successivi, livelli in sequenza logico-gerarchica; il modo in cui l’uomo concepisce il proprio approccio, il proprio calarsi nella vera Realtà, il tentativo di penetrare la dimensione dell’eterno mutamento della Vita che è dentro la sacralità del fiume.
I gradini sono fermi e così restando vorrebbero entrare nell’acqua, nella sua dimensione.
Ma il fiume è sacro perchè non è mai lo stesso in cui ci siamo già immersi. Non lo si può raggiungere.
L’acqua scorre in orizzontale, senza fine. E non contiene i gradini. Semplicemente, gli scorre sopra.
L’acqua è acqua: fluisce secondo le circostanze, scorre senza sosta, adattandosi alle forme contingenti del terreno, così com’è.
Non è che movimento, mutamento, cambiamento, non ha scopo nè disegno.
Per questo i gradini le rimangono comunque estranei.
Si muove su un altro piano.

Intanto, su barchette di foglie di banano, con fiori e un po’ di riso, corrono sui flutti le fiammele offerte dai fedeli.
Scorrono insieme al fiume.


Vado di sera alla cerimonia quotidiana del Ganga Aarti. Tutti i giorni, alle 19.00, qui ad Haridwar, una gran folla si raduna lungo i ghat che scendono al Gange per offrire fuoco alla Madre Ganga, dea d’acqua. Ogni sera un’ovazione si alza rivolta agli dèi; un’ovazione quasi da stadio e mille fuochi e piccole fiammelle, che vanno a galleggiare sul fiume.

Momento di buoni guadagni per i bramini, che vendono promesse di aldilà, e anche solo per i venditori di incensi e fiori, in questo grande business religioso che credo abbia una grossa rilevanza nel PIL indiano.
Se c’è un paese in cui si tocca con mano quanto la religione sia “l’oppio dei popoli”, questo è certamente l’India.
Un modo per dimenticare le difficoltà della vita, la povertà. Sì, anche, ma non è solo questo, non sono certo tutti poveri in India. C’è da un lato l’irrazionalità di affidare tutto il rapporto col “divino” all’emozionalità, al sentimento, come si trattasse di un amante – e forse ne è anche un po’ un sostituto, data la comunicazione tra i sessi molto controllata secondo la tradizione - e dall’altro, nel vedere la vita sempre alla luce di qualcosa che ne va al di là, la capacità di amarla in ogni sua forma – perciò sacralizzata – al di là di come e cosa sia, una capacità che sorge direttamente dalla fondamentale tranquillità di quei gran “caciaroni” che sono gli Indiani (“always a bit louder than loud” come dice la star bollywoodiana Shah Rukh Khan).

E poi…… e poi ci sono certamente mille altre componenti e mille altri modi di vederla, dato che in India si può trovare tutto e il contrario di tutto: non la si comprende mai fino in fondo…. Anzi, forse sta proprio lì apposta: per mostrarci che non possiamo comprendere tutto.
Nemmeno gli Indiani, credo, riescano a comprenderla; ma per loro questo non sarà certo un problema: solo - come ogni altra cosa, del resto - un dato di fatto.



SEED SAVERS INDIANI: VANDANA SHIVA E NAVDANYA

Nella campagna vicino Dehra Dun, la capitale dell’Uttarakhand, c’è Bija Vidyapeeth, l’ “Università dei Semi”, il centro di Navdanya, l’organizzazione fondata da Vandana Shiva in cui vengono coltivate e conservate le sementi di numerosissime varietà tradizionali di cereali, ortaggi, legumi, piante officinali da sempre patrimonio dei villaggi indiani.

Un posto tranquillo e ben curato che contiene, oltre alla banca dei semi, ai campi, ai laboratori di analisi del terreno, anche una biblioteca ed un centro multimediale con stanze semplici, servizi ed una mensa per ospitare i frequenti visitatori e volontari che lo rendono un crocevia internazionale di persone attivamente interessate all’agricoltura biologica ed alla difesa della biodiversità. L’atmosfera che vi si respira fa molto presto sentire a casa, una casa precedentemente sconosciuta alla quale sembra essere tornati, forse perchè ci si occupa qui di cose basilari, comuni a tutti noi umani, tanto mentre diamo una mano a falciare i piccoli appezzamenti con le varietà di basmati o di amaranto quanto mentre continuiamo a chiacchierare con gente di tutto il mondo a mensa, mentre ci laviamo il nostro piatto dopo mangiato.
Non saprei, in realtà, quanto l’apporto dei volontari sia determinante per i lavori del centro, ma è chiaro che questo è pensato con grande attenzione a loro, credo con la consapevolezza che i giorni passati qui non mancheranno di lasciare il segno nella vita dei molti che vi passano e di avere ripercussioni nelle loro scelte e quindi nel mondo in un modo o nell’altro – per strade forse anche silenziose o indecifrabili, ma molto concrete e reali.

Navdanya (www.navdanya.org) è una organizzazione che sa parlare e lavorare altrettanto bene al contadino analfabeta come al funzionario statale o della ong, all’intellettuale, al politico, allo scienziato, alle istituzioni internazionali e delle Nazioni Unite. È al lavoro di Vandana Shiva, insieme ad altre persone, che si deve la vittoriosa battaglia legale che ha fermato il tentativo piratesco delle corporations agro-chimico-genetiche di mettere un brevetto sul riso basmati e sull’albero del neem, usato dalla popolazione indiana da tempo immemorabile per una quantità di applicazioni, tra le quali cui come ottimo antiparassitario naturale per frutta ed ortaggi.
Tra gli aspetti importanti del lavoro di Navdanya c’è che permette ai contadini – grazie anche ad altre organizzazioni come Slow Food ed alla sua biennale manifestazione torinese “Terra Madre” (www.terramadre2008.org) – non solo di entrare in contatto con altre realtà del mondo e di vedere quanto anche nei paesi ricchi i loro prodotti possano essere apprezzati e le tematiche che li riguardano considerate, ma, forse soprattutto, di incontrare altri contadini come loro. Questo è della massima importanza se pensiamo che uno dei più grandi punti di debolezza dei contadini è sempre stato il loro isolamento, non tanto dagli altri settori della società (dato che, alle strette, è l’unico settore che potrebbe anche fare a meno degli altri), ma tra loro stessi. I contadini (a parte differenze esteriori non sostanziali) fanno in tutti i posti del mondo la stessa vita, condividono analoghe esperienze e problemi: quelli del modo basilare della vita umana in tutto il mondo. Ma, a fronte di questo, vivono una condizione molto legata al luogo in cui si trovano, spesso senza occasione per tutta la vita di visitare neanche posti ben poco distanti dal loro villaggio. Di conseguenza – ed anche a causa di una certa propensione a diffidare di qualsiasi straniero dovuta appunto a questo isolamento - non avranno mai idea della forza che potenzialmente avrebbero se uniti vacessero valere il loro vero peso nel procedere della società, tale da bloccarla in tutto il mondo, nè della sostanziale unità dei meccanismi e degli interessi che stanno dietro ai drammi della loro condizione.

Centrale nell’attività di Navdanya (che significa “nove semi” o anche “nuovi semi”) è il mantenimento delle varietà tradizionali delle sementi usate dai contadini indiani e della loro biodiversità. Ciò che loro dicono esplicitamente è che non ci può essere indipendenza dei contadini se questi non producono da sè i propri semi. Di qui il rifiuto netto dei brevetti sulla vita, degli ogm e delle varietà ibride selezionate industrialmente e sterili o incapaci di riprodursi come cultivar specifico. Di qui la cura nel mantenere la biodiversità, nell’ampliarla e nel migliorarla (come del resto si è fatto da sempre, pur se in modo meno sistematico o scientifico) per avere più possibilità di adattamento delle coltivazioni ad una molteplicità di circostanze possibili, date sia dai diversi contesti geografici che dai cambiamenti climatici che vediamo manifestarsi con crescente evidenza.
Parlando della storia recente dell’agricoltura in India col dott. Vinod Bhatt, che dirige il centro, egli ha descritto il passaggio, che avvenne al tempo della colonia britannica, da una situazione di una moltitudine di piccoli appezzamenti in possesso di famiglie (più o meno allargate) all’emergere del latifondo in mano agli zamindar, grandi proprietari terrieri favoriti a questo scopo dagli Inglesi. Questi proprietari, legati al mondo dell’agricoltura, ma non contadini, reorientarono questo stesso mondo in direzione del mercato, in senso prioritario e non più solo per le eccedenze. Essendo dunque la vendita lo scopo principale della produzione, questa doveva occuparsi di ciò che era vendibile e rivolgersi a dove e cosa era vendibile. Ovviamente i prodotti potevano essere venduti dove c’erano i soldi per comprarli, ovvero nella “madrepatria” britannica e dunque cotone, indaco, tè, caffè e cose simili che si possono commerciare, sì, ma che non sono più il cibo di cui vivere. Ecco dunque il contadino che smette di essere tale: non produce più in primo luogo per mangiare e secondariamente per vendere le eccedenze e comprare così ciò che non può produrre, ma diventa un produttore di merci, un operaio agricolo (anche quando lavora in proprio) eterodiretto e/o eteroindirizzato. Ecco dunque l’inizio della perdita, insieme al cibo, della biodiversità, delle conoscenze e delle tecniche tradizionali, dell’indipendenza Ecco l’inizio di molti cambiamenti nella vita di tutti i giorni, fino in dettagli apparentemente irrilevanti, ma invece molto significativi. Ad esempio, l’uso oggi comune in India - anche al di fuori delle aree semidesertiche dove era inevitabile - di usare letame secco come combustibile, si diffuse quando la corona inglese vietò alla popolazione – come secoli prima aveva fatto in patria dando inizio all’esodo rurale verso le città – l’uso comune delle foreste. Questo trasformò il letame in risorsa combustibile privando i contadini del fertilizzante naturale e gratuito che avevano sempre avuto a disposizione. La prima fabbrica di concimi chimici in India iniziò a produrre già nel 1904, ma il loro uso rimase molto limitato ancora fino all’indipendenza quando a Jawahrlal Nehru venne in mente – con buona pace del progetto di nazione al quale Gandhi aveva dedicato la vita - che l’India doveva trasformarsi in una nazione industrializzata, dunque che, per un paese di contadini, la via da intraprendere era quella dell’industria pesante e della “Green Revolution” in agricoltura (chimica e macchine a go-go). Quando, al tempo della colonia, l’agronomo Sir Albert Howard fu mandato ad insegnare le tecniche agricole occidentali agli Indiani, questo ritornò scrivendo libri (“I diritti della terra” – Slow Food Editore) in cui illustrava in dettaglio le tecniche autoctone concludendo che gli Inglesi avevano più da imparare che da insegnare nei confronti dei contadini che avevano colonizzato. In India si coltivavano allora circa 200.000 varietà diverse di riso. Oggi ne esistono ancora due o tre migliaia, ma quelle che di fatto si trovano comunemente nei mercati sono solo una decina. Un ettaro produceva una cinquantina di quintali di riso contro i dodici di oggi. Dall’adozione della “Rivoluzione Verde” in poi l’uso di pesticidi e insetticidi è andato sempre aumentando insieme all’incidenza di malattie e parassiti. L’India era una volta autosufficiente quanto a riso e spezie ed oggi è costretta ad importarne. In compenso è attualmente il quarto produttore mondiale di concimi chimici (qualcosa converrà pure prodursi da sè). Oltre alla massiccia sponsorizzazione sia da parte statale che privata (e soprattutto da entrambe congiuntamente essendoci stati con ogni probabilità accordi tra USA e governo indiano che condizionavano la fornitura di aiuti economici all’adozione dei programmi di “modernizzazione” agricola – del resto, “se non volete imparare come produrre di più vuol dire che non volete mangiare…e allora, perchè dovremmo aiutarvi?”) la rapida accettazione dei prodotti chimici in agricoltura è stata certamente accettata a causa degli spettacolari risultati nel breve periodo: i contadini hanno visto crescere raccolti eccezionali con sforzo molto minore….magari, accompagnando la cosa con omaggi di quantità iniziali per test gratuiti, e il gioco è fatto. La questione vera è che l’impoverimento progressivo e la conseguente erosione del suolo, l’aumento di parassiti e malattie, la dipendenza crescente da macchinari, carburanti, prodotti di sintesi, veleni, sementi selezionate e sterili, fino alle ultime novità geneticamente modificate, hanno portato in venti-trent’anni molti contadini a ritrovarsi una terra che non produce più se non ‘drogata” costantemente di sostanze chimiche sempre meno efficaci e sempre più indispensabili, costose e non tali da consentire risultati che vadano a compensare le spese. Negli ultimi anni oltre 250.000 contadini indiani si sono suicidati non potendo più pagare i debiti nè mantenere la famiglia. Allo stesso tempo sui muri di molte case nei paesi di campagna c’è chi ha accettato di verniciare la pubblicità del RoundUp e delle sementi RoundUp Ready: sementi che non si riproducono e che necessitano di tutta la linea di fertilizzanti ed antiparassitari per poter crescere….un ciclo completo (non so se comprende anche un buono per le pompe funebri in caso di suicidio).

Il lavoro di Navdanya, che ha un successo notevole laddove le sue forze le permettono di arrivare, è dunque chiaramente della massima importanza e va sostenuto. Ma non possiamo non vedere ciò che può dire anche a noi che ci riguarda: il gap tra l’effetto spettacolare immediato e l’impoverimento e la situazione di pericolo complessivi successivi è qualcosa che riguarda tutta la nostra realtà, da noi in modo forse meno percepibile che nel caso dei contadini indiani, ma anche in modo più pervasivo e sottile riguardando un po’ tutto il sottofondo della nostra situazione. Se in India l’agricoltura biologica ed autogestita dai villaggi è la base per riappropriarsi di una economia autocentrata e sostenibile materialmente, da noi una agricoltura biologica e neo-contadina può essere una via di salvezza per riappropriarci della nostra vita nel suo complesso, dei suoi ritmi, del suo senso, del nostro riconoscerci in essa e nella sua direzione. In entrambi i casi si deve ripartire da una visione della dimensione (neo)contadina complessiva e non come meri produttori di cibo (come fosse un mestiere come un altro). In un contesto come quello indiano si tratta in primo luogo di coltivare la possibilità di un lavoro e di cibo sano per la massa della popolazione. Nel contesto nostro si tratta, se così si può dire, di coltivare la nostra anima, il nostro spirito - o come lo vogliamo chiamare – attraverso la pratica. In entrambi i casi si tratta di salvare il pianeta.
Da un lato va tenuto ben presente che il passaggio (la distorsione) fondamentale è il momento in cui il contadino smette di essere, di essere considerato e di considerarsi un contadino a tutto tondo e diventa solo un produttore di cibo, della merce-cibo. Dall’altro c’è un punto che loro di Navdanya sottolineano – e sul quale si sofferma anche Carlo Petrini di Slow Food nel suo notevole “Buono, Pulito e Giusto” - cioè l’importanza del ruolo dell’acquirente, il consumatore, considerandolo una sorta di co-produttore, in quanto è colui che permette al contadino di continuare a produrre e fare la propria vita sapendo che potrà vendere i propri prodotti e così garantirsi quella parte di sostentamento che non riuscirebbe ad auto prodursi – ovvero rendendo possibile il fatto che questa rimanga solo una parte e quindi che anche chi produce molte delle cose che egli deve comprare possa essere produttore di queste solo in parte, ed autoproduttore (spesso, ma non solo, contadino a sua volta) per il resto.


LA DIGA DI TEHRI



Da Dehra Dun per andare verso le montagne a nord si passa per Tehri dove, alle popolazioni locali che hanno a lungo e duramente protestato contro il progetto, è stata imposta una diga di grandi proporzioni che ha comportato l’evaquazione di 100 villaggi più l’antica cittadina di Old Tehri, tutti ormai sommersi, insieme ai campi di cui vivevano i 130.000 abitanti ora sfollati di una delle valli più fertili dell’Himalaya. È un enorme sbarramento sul Baghirati, il tratto iniziale del Gange. Ora la diga, entrata in funzione da due anni, produce solo il 10% dell’energia elettrica preventivata e ci sono state già numerose frane che fanno fanno temere per la sua sicurezza. Comunque, anche quel po’ di elettricità che ne viene prodotta non è destinata alla gente di questa zona, dove continuano ad esserci turni quotidiani per chi deve restare al buio parte delle ventiquattr’ore.
L’energia va lontano. Al mondo delle fabbriche e delle grandi città (dove pure ci sono frequenti black out, dato che la produzione di elettricità non tiene il passo col galoppante ritmo dello sviluppo indiano).
Mi viene da pensare ad un altro mondo lontano, quello di casa nostra, dove spesso nascono movimenti di opposizione a discariche ed inceneritori, ponti e linee di alta velocità. Tutte cose sacrosante (queste proteste). Però, mi chiedo: si può risolvere la cosa limitandosi all’impedire la realizzazione di certe opere vicino al proprio giardino? Si prende mai davvero in considerazione il dato di fatto che, finchè immense quantità di rifiuti ci saranno, bisognerà pure eliminarli da qualche parte? Che se si vuole far girare l’economia a certi livelli ci vogliono pure determinate infrastrutture – che non sempre possono essere a impatto zero, tutt’altro? Che se si vuole consumare a certi ritmi ci vuole pure una certa produzione/consumo di energia, che non potrà essere pulita in misura sufficiente? Mi chiedo fino a che punto ci si renda conto, da noi, che se davvero non si vogliono opere inquinanti e pericolose, nè a casa propria nè altrui (pensiamo ad esempio allo smaltimento di scorie e rifiuti tossici), bisogna adottare ben altri stili di vita, ben altri modi e livelli di produzione/consumo. Non si scappa da questa realtà, altrimenti si tratta solo di passare a qualcun altro la patata bollente ovvero le conseguenze delle proprie pretese/libertà insostenibili. Magari a gente come i contadini di questa valle, ai quali non si può certo imputare la ben che minima corresponsabilità, che vivevano una vita davvero innocente da questo punto di vista, una vita che non è cambiata ora nel non avere l’elettricità che non avevano prima, ma che è cambiata molto per aver perso terra, casa, memorie e dèi locali rimasti sotto l’acqua insieme ai propri diritti calpestati dalla ricerca di profitti di qualche grande azienda pronta a “modernizzare” il paese.
Queste persone sfollate davvero non hanno coinvolgimenti di corresponsabilità, nemmeno in linea di principio, davvero sono le sole che potrebbero parlare. Ma la loro voce non viene ascoltata.

Mi vengono in mente i manifestini con la falce e martello che ho visto sulla parete di una casa, in questo periodo di elezioni indiane. Mi viene in mente quanto diceva ieri Vandana Shiva sulla grande espansione attuale del movimento naxalita (simil-maoista) in India: gruppi guerriglieri che tengono sotto controllo ampie zone del paese, soprattutto territori marginali, di foresta, di confine, territori tribali e contadini, impossibili da presidiare tutti da parte dell’esercito del governo centrale, e forse non così importanti dal loro punto di vista, ma il centro del mondo per i moltissimi delle minoranze etniche che avevano sentito sancito a parole il proprio diritto sulle proprie terre, ma che lo hanno visto calpestare da interessi di potenti sconosciuti e lontani.
La ripresa dei movimenti comunisti rivoluzionari nel subcontinente indiano (a partire dall’avvento al governo del partito maoista ex-guerrigliero in Nepal) può suonare – e può forse anche essere – la risposta un po’ “naif” di gente poco attrezzata per dialogare con la realtà contemporanea, l’ingenuità di dar credito a capetti locali, futuri dittatori. Ma se questa inadeguatezza c’è è anche perchè la non inclusività di questo sistema mondiale verso determinate popolazioni e modi di vita è un fatto reale e la delusione che sorge da tante chiacchiere sul progresso e la democrazia altrettanto. Il risultato è che ci son persone, su queste e su molte montagne del mondo, in molte foreste, in molti villaggi (un bel pezzo di umanità, se li andiamo a contare) che non ci sentono più, e non ci vogliono sentire.
A meno che non si tratti di chi dice un bel NO. Forse ottuso, forse semplicistico, forse foriero di ulteriori problemi….si, però un bel NO, chiaro e netto.
Una cosa a cui conviene prestare attenzione.





VERSO LE MONTAGNE

Insieme ad alcuni operatori di Navdanya una visita ad alcuni villaggi salendo verso le montagne dell’Uttarakhand.

Si coltiva amaranto, riso rosso, fagioli neri, lenticchie color arancio; c’è un tipo di zenzero che sa di mango, capre kashmire simili a quelle nostre girgentane (di Agrigento) – chissà per quali strade e quali storie saranno imparentate?
Ogni famiglia ha tradizionalmente il suo granaio, assurto ora alla dignità di “banca dei semi”, tesoro di identità e cultura, indipendenza e conoscenza da tramandare alle generazioni future.
Rimarrà così qualcosa da offrire agli ospiti – ma anche al mondo – di veramente tipico, frutto della terra e del lavoro di questi luoghi e proprio di questi. Qualcosa che non si potrà trovare fra le poche varietà di riso o legumi o verdure che il mercato globale rende disponibili su tutte le piazze, su tutti gli scaffali.

Resterà qualche alternativa per sfamarsi quando nuove malattie e mutate condizioni climatiche stermineranno le monocolture monopolistiche e superspecializzate. E ci saranno ancora sementi libere, anche se forse ormai clandestine (?) il giorno – se mai arriverà - che tutte le fonti di cibo saranno state privatizzate, quando ogni segmento di DNA avrà trovato il suo padrone e il suo escluso.

Per ora c’è solo maggiore biodiversità, maggiore autentica ricchezza su questa Terra, preservata in questi villaggi. Anche noi l’avevamo, anche noi l’abbiamo ancora, anche se pochi lo sanno: l’Italia abbonda di varietà locali tipiche, a volte solo di un particolare paesetto o di pochi ettari di terra.

Patate viola, pomodori tigrati, fagioli a pois, aglio rosa, biete arancioni e molti altri prodotti con caratteristiche meno “spettacolari”, ma tutte frutto della paziente selezione e della cura di generazioni di contadini, oggi in gran parte dimenticate a causa della fuga dalla terra e della standardizzazione delle produzioni. Fortunatamente non tutto questo è perduto grazie a chi, anche da noi, si adopera per salvare questa biodiversità, come Alberto Olivucci e la rete di Civiltà Contadina (www.civiltacontadina.it ).

La gente qui nei villaggi non ha nulla delle comodità moderne, ma neppure manca loro nulla di veramente necessario. Case di legno, robuste e dignitose.

Comunità piuttosto solide ed integrate (anche loro con i loro immigrati, stagionali dal Nepal e dallo stato indiano povero del Bihar). Alcune famiglie riescono anche a mandare i figli all’università a Dehra Dun. Molti di questi, una volta laureati, vorrebbero lavorare in zona, per il futuro delle proprie comunità, ma, se spesso devono seguire in città o nelle pianure industrializzate la propria carriera, ciò è dovuto in gran parte (anche) alla politica perseguita dal governo indiano che – come è stato anche qui da noi – non è certo quella di venire incontro a chi vive sulle montagne, bensì di lasciare che queste si spopolino e che sia la gente a venire giù, incontro allo sviluppo che avanza.

Le valli sono abbastanza omogenee culturalmente al loro interno e, grazie al lavoro di Navdanya, i villaggi di alcune di queste sono passati in blocco all’agricoltura bio – o hanno comunque scelto di rimanervi non avendo ancora mai adottato la chimica.

Lungo la stessa valle si condivide il culto dello stesso dio locale, diverso di valle in valle, ma perlopiù si tratta di varie incarnazioni di Shiva, dio riconosciuto e venerato in tutta l’Himalaya.
Dio della trasformazione infinita, della danza delle cose, Il bene e il male sono momenti diversi del suo gioco.
Shiva è toro e cobra, fumo denso del charas.
Incarnato in alberi e mucchi di pietre, adornati di tridenti e campane.
Evocato da asceti erranti forse autentici e forse falsi e a volte, umanamente, entrambe le cose.
Dio di foreste, e di montagne. Di vento, di crepacci e di valanghe.
Di grotte oscure e di ghiacciai abbaglianti.
Un dio di arcobaleni.



Non che queste cose siano simboli di Shiva. Anche, ma non son sue metafore: è Shiva che è dio in queste cose.
Anche un dio è un dato di fatto. O, forse piuttosto……viceversa.



TREKKING AL KEDAR KHANTA



Quando si va in trekking di solito rimango ben presto l’ultimo del gruppo.
È questo il bello del camminare in montagna: che ognuno non può che andare al proprio passo, così com’è.






Non si può seguire l’andamento altrui, si rovinerebbero le proprie preziose energie e poi non ce n’è motivo: prima o poi, tutti si arriva.









Mi piace gustare questo lusso. Il lusso della lentezza, del proprio ritmo, quale che sia, del sostenere la propria via, e la propria fatica, e pure andare avanti, pian piano.
Persino mi fermo a pensare quanto questa possibilità sia diventata preziosa oggi. E quanto si ribalterebbe la graduatoria dei ricchi e dei poveri di questo mondo, delle persone di successo o meno se a misurare la scala fosse quest’altro metro.








Mi guardo intorno nel bosco e gli alberi non hanno bisogno di dirmelo… quanto tempo ci hanno messo a crescere.