domenica 1 novembre 2009

A Sri Lanka, al tempo dello Tsunami




Lungo la strada costiera che da Colombo porta fino ad Hambantota, due settimane dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 che in pochi minuti si portò via oltre 40.000 vite solo a Sri Lanka, più che le macerie non si vedeva un gran che. Barche sì, fracassate contro ciò che rimaneva di alcune case, e tegole, cocci, stracci, pezzi di legno, di motorini, di serbatoi d’acqua.


Ero arrivato nell’isola proprio la mattina dopo la tragedia: accompagnavo un gruppo di turisti italiani in un viaggio di Turismo Responsabile. Questi viaggi hanno sempre anche un aspetto di solidarietà, ma non ci aspettavamo certo quanto questa sarebbe stata necessaria stavolta!

Ora il gruppo era rientrato finite le ferie ed io avevo un po’ di soldi speditimi da amici da casa che volevano dare una mano alle famiglie locali colpite e me li avevano affidati dato che mi trovavo sul posto e che conosco il paese per diversi viaggi precedenti.

Non si vede la gente” continuava a ripetere l’amico tamil dell’organizzazione umanitaria di Kandy, HDO ( Human Development Organization) con cui stavamo compiendo un lungo viaggio in bus fino a Tangalle sulla costa sud dell’isola.
Pochissima gente in effetti, solo qualcuno che rovistava tra i pezzi di mura a cercar di ritrovarci pezzetti di casa.


Macerie, per cinque ore continue, le immagini che ho negli occhi del viaggio in bus lungo la costa. Mucchi di mattoni rotti e calcinacci e pezzi di travi e resti di mobili e tegole spaccate e stracci e avanzi di moto e biciclette contorte e schegge di barche arrivate fin oltre la strada. E una vecchia, seduta fuori da una tenda improvvisata, a guardare nel vuoto le immagini dei ricordi che le rimangono. E gente che cercava, in mezzo a tutto questo, di ritrovare qualcosa che fosse ancora utilizzabile. In tempo, prima che arrivassero i caterpillar ad aprire un nuovo spazio necessario ad un futuro incerto.


Stanno nei campi “ diceva lui, “hanno paura a tornare”.
Tutte le scuole della costa e molti templi buddisti erano utilizzati come campi per i rifugiati. Parlando con le persone che ci vivevano gli si percepiva negli occhi ancora il muro d’acqua che travolgeva tutto cio’ che trovava, le persone che affogavano, i loro genitori, i loro figli, i vecchi e i bambini soprattutto, meno veloci a cercare rifugio in cima alle palme o sui tetti. La vita rimastagli ora era l’attesa quotidiana di un camion con qualche bandiera sconosciuta che arrivasse nel campo a portare razioni di cibo; la notte, sdraiati sulla terra nuda, spesso l’insonnia, i ricordi, gli incubi ed urla di paura dalle tende vicine.


Tra poco, poi, comincerà il monsone che allagherà tutto puntualmente una volta al giorno. La vita nei campi è difficile perché con la morte di tante persone la struttura su base familiare della società si è disgregata: negli stessi campi vivono a stretto contatto persone che prima dello tsunami erano di condizioni sociali diverse, e qui le caste hanno la loro importanza: non tutti erano poveri, non ugualmente almeno, e per le donne giovani non sposate e le vedove spesso è preferibile cercare rifugio da parenti piuttosto che vivere nel campo anche se così perdono il diritto alle razioni di cibo.


Poi ci sono molti che non hanno perso la casa, ma hanno perso tutti gli strumenti di lavoro, le barche soprattutto, e non sono considerati rifugiati,ma non hanno lo stesso di che guadagnarsi da vivere”.

“Vedi, loro sono gli unici qui che siano organizzati, e si fanno vedere”. Nada, l’amico tamil, mi indicava un tendone sotto il quale era stata allestita una mensa: un gruppo di donne avvolte in sari di poco prezzo, qualcuna col bambino in braccio e qualche uomo col sarong legato sulla pancia facevano la fila verso una serie di pentoloni da cui veniva distribuito riso e curry e a fianco sventolavano le bandiere blu con la scritta bianca del JVP.



Ogni tanto poi lungo la strada incrociavamo camioncini carichi di attivisti con la stessa bandiera. Il Janata Vimukti Peramuna (People’s Liberation Front) e’ il partito comunista-nazionalista che alla fine degli anni Ottanta scatenò, soprattutto nel sud del paese, una insurrezione che fece migliaia di vittime sia da parte dei rivoluzionari che del governo, il quale rispose con una sanguinosa repressione. In seguito è diventato un partito istituzionale, oggi il terzo del paese, molto radicato a livello popolare nelle province meridionali. E’ tuttora un partito piuttosto combattivo, un contrappeso alle tendenze fortemente liberiste e favorevoli agli investimenti stranieri degli altri due grandi partiti, il PA ed in questo senso, soprattutto l’UNP (nello Sri Lanka ci sono alcune Export Processing Zones a statuto speciale tra quelle con le peggiori condizioni di lavoro in Asia ed è uno dei pochissimi paesi dell’area in cui gli stranieri possono acquistare terreni ed immobili ottenendone il 100% della proprietà). Era anche, insieme al partito integralista-conservatore del clero buddista, uno dei principali ostacoli ad una soluzione pacifica del conflitto con le forze indipendentiste dei Tamil del nord-est.
La guerra civile tra l’esercito nazionale e le LTTE (Liberation Tigers for Tamil Eelam, dette le “Tigri Tamil”) finita nel 2009 con la sconfitta dei separatisti era in corso dal 1983 ed ha causato oltre 70.000 morti. Negli ultimi tre anni prima dello tsunami veniva rispettato un cessate il fuoco ottenuto grazie alla mediazione della Norvegia ed alla politica di dialogo di Ranil Wikremesinghe, primo ministro a capo del precedente governo guidato dal UNP (United National Party). Sebbene lo stato di tregua fosse stato, durante questo periodo, sostanzialmente rispettato, le trattative per giungere ad una pace permanente, che potesse dare speranza a questo povero paese di cui la guerra ha consumato per vent’anni percentuali significative del PIL, si sono presto arenate e, se non ci fosse stato lo tsunami, forse al nord avrebbero ricominciato a combattere molto prima di quanto poi hanno fatto. Nada, per il suo lavoro con la ong, si recava spesso nelle zone tamil di Jaffna, Mullaitivu, Batticaloa e mi diceva che la tensione era sempre più alta negli ultimi tempi prima della catastrofe al di qua e al di là della linea che divide le rispettive aree di controllo dell’esercito e delle “Tigri”. “La situazione post tsunami sta riprendendo la stessa tendenza: gli aiuti che giungono da parte del governo nelle zone a maggioranza tamil sono minime rispetto a quelle dei Singalesi e ci sono stati casi di sequestro di camion carichi di cibo destinato ai rifugiati tamil” .

E’ anche significativo che durante le loro visite a Sri Lanka nei giorni successivi allo tsunami né Kofi Annan, né Colin Powell, né Bill Clinton, né Bush senior abbiano potuto visitare il nord-est.
La [allora] presidente Chandrika Bandaranaike Kumaratunga ha creato un ufficio centrale sotto il suo diretto controllo che supervisiona tutti gli aiuti e che, per quanto gli riesce, cerca di gestire direttamente anche i fondi delle ong: l’atteggiamento in pratica è “dateci i soldi che ad usarli ci pensiamo noi”. Ed è forse per contrasti sorti in seguito a ciò che mi è perfino capitato di leggere sui giornali di oltre 100 containers di aiuti bloccati nel porto di Colombo che le ong destinatarie non potevano ritirare a causa delle eccessive tasse doganali mantenute anche sulle donazioni.

“Ma le “Tigri” non sono da meno” continuava Nada: “Hanno costituito la loro centrale per gli aiuti alle vittime, la TRO (Tamil Rescue Organization) e pretendono che nelle loro zone tutto debba passare sotto la loro amministrazione. La gestione del denaro e dei beni che vengono distribuiti è una grande fonte di potere ed un potente mezzo di propaganda, decisivo per il periodo che seguirà. Se ci fai caso tutti quelli che portano aiuti hanno le loro bandiere ben in vista”.
Nada, egli stesso tamil, appartiene a un’altra scuola: la sua ong, HDO , è un gruppo di convinti pacifisti, di ispirazione gandhiana, ed impegnati nel dialogo interetnico; una vera rarità in questo contesto. La missione per la quale lo stavo accompagnando a Tangalle lo testimonia chiaramente: si trattava di un sopralluogo per organizzare una spedizione di aiuti da parte di una organizzazione tamil in un’area totalmente singalese. “Anche noi porteremo le nostre bandiere” mi diceva con un mezzo sorriso “ vogliamo che vedano chi siamo”.

“Specularmente al JVP al sud, l’LTTE è l’unica forza locale veramente organizzata al nord (anche se insidiata da una serie di faide omicide reciproche con altre fazioni tamil scissioniste)” mi spiegava ancora Nada mentre scendevamo dall’autobus strapieno e attraversavamo la piazza della bus station scansando mucche randagie, mendicanti e venditori ambulanti con in braccio cassette di noccioline, frittelle e cartocci di ceci conditi piccanti. “Sono organizzazioni con una struttura paramilitare, capillare e disciplinata, mentre i due grandi partiti istituzionali (PA e UNP) sono più mediatici, più di immagine, con quadri meno motivati, e mancano di organizzazione: la gente non li vede altrettanto presenti nella distribuzione dei beni primari nei campi e sulle strade. I politici locali sembrano essere attenti soprattutto alla propria immagine: c’è chi si è fatto fotografare mentre spalava macerie o consegnava razioni, in molti villaggi colpiti son state fatte cerimonie di posa della prima pietra per le nuove case, con servizi su giornali e tv, ma poi i lavori si sono fermati lì ed è addirittura successo che gli assegni di assistenza che il governo ha distribuito ai rifugiati siano poi, in molti casi, risultati scoperti”.
“E questo avra’ il suo peso. Hai visto nel distretto di Gampaha, vicino Negombo? Non è tradizionalmente una zona del JVP, ma in questi giorni ci sono state le elezioni locali ed hanno vinto loro. Queste cose avranno la loro importanza se ci saranno sviluppi conflittuali in seguito alla piega che sta prendendo qui la politica del dopo tsunami. E’ un passaggio storico, decisivo per noi: una catastrofe inimmaginabile che ha spezzato le gambe ad un paese già povero e al tempo stesso ora un afflusso di denaro e risorse superiore al PIL annuale e tutto ciò in un momento cruciale per un conflitto che dura da più di due decenni!”





Dopo aver dato una mano a Nada ed i suoi collaboratori nella distribuzione degli aiuti ero rimasto a Tangalle per vedere cosa potevo fare io con questi soldi.
Più che dare aiuti primari come cibo ed acqua – a cui provvedevano comunque le grosse organizzazioni - volevo aiutare qualcuno a ricominciare a lavorare. E dato che le persone colpite nella zona, come del resto su tutta la costa, erano principalmente pescatori, ho pensato di vedere se era possibile fornire qualche attrezzatura da pesca.
Dopo alcune ricerche su internet sono entrato in contatto con NAFSO (www.nafso.lk) , un sindacato locale di pescatori su piccola scala collegato al network globale di contadini e pescatori Via Campesina. Loro mi hanno indicato un loro iscritto di riferimento a Tangalle, mr. Vipulasena, un pescatore ed una vittima dello tsunami egli stesso, infatti mi hanno detto che alloggiava in uno dei campi dei rifugiati e quindi non potevano darmi un telefono o un contatto per trovarlo. “Ma sai che Tangalle non è grande, e la gente si conosce”.

Ricordo il momento in cui lungo la strada davanti al porticciolo di Tangalle ho chiesto ad un uomo con addosso solo una maglietta sporca ed un sarong, seduto ai piedi di uno degli edifici distrutti, se conosceva un certo Vipulasena della NAFSO e lui mi ha risposto che era proprio lui. E quando, davanti alla mia reazione un po’ prudentemente sospettosa (si capiva che ero lì per portare aiuti e forse denaro) ha estratto da un mucchio di calcinacci uno striscione mezzo strappato con scritto sopra in caratteri singalesi il benvenuto per il “congresso 2004 per i diritti ed il benessere delle famiglie dei pescatori”… o qualcosa del genere.
Ricordo gli altri pescatori che subito si sono avvicinati ed i loro racconti: barche che entravano spinte dall’acqua dentro le case, i colleghi morti, la paura di tornare al mare anche dopo giorni, la gente che non voleva comprare il pesce per il timore che fosse contaminato dai cadaveri e chi ne approfittava per pagarlo a prezzi da fame. E quelli che erano sulle barche più grandi che stanno fuori diversi giorni e non si erano accorti di nulla perché in alto mare l’onda non aveva potenza distruttrice e quando sono tornati hanno trovato la città distrutta e i morti per le strade.



Vipulasena mi spiegò la differenza tra le varie barche e i diversi sistemi di pesca: ci sono barche da una , due e molte persone e da un solo giorno o da diversi giorni di pesca e in questo caso portano il ghiaccio nello scafo per conservare il pesce. Le prime sono quelle a livello familiare, dei pescatori che lavorano in proprio di cui molti aderiscono alla NAFSO, le altre appartengono a proprietari cittadini ed i pescatori che ci lavorano sono pagati a giornata.
Mi ha fatto vedere i danni alle barche ed ho capito subito che ci volevano ben altre risorse di quelle che avevo a disposizione per pensare ad aggiustarle o ricomprarne di nuove. Quindi abbiamo optato per comprare delle reti da pesca per coloro il cui catamarano (tradizionale barcone con bilanciere) poteva ancora uscire in mare . Lì però non c’era modo di acquistare reti dato che anche le rivendite e le fabbriche di questi articoli erano state travolte dalla catastrofe. Dovevo andare più a nord, a Negombo, e così avrei anche potuto incontrare il segretario nazionale del sindacato che ha lì la sede centrale.
Con il segretario, Herman Kumara, andammo da un grossista di attrezzature da pesca. Ho comprato le reti necessarie al lavoro di 100 famiglie, 50 reti, con ognuna lavorano due pescatori e poi il resto della famiglia vende il pesce, lo secca, ripara le reti ecc… Così ho speso i 2.000 euro che avevo a disposizione, poi loro avrebbero consegnato tutto ad una lista di destinatari concordata con Vipulasena.
Poi mr. Kumara mi ha invitato a casa. Vive fuori Negombo in una zona coltivata a palme da cocco e banani, è cristiano, ma sposato con una moglie buddhista, come mi ha fatto notare lei mentre poggiava l’offerta sull’altare domestico che recava insieme una statuetta di Cristo ed una di Buddha. Un matrimonio interreligioso relativamente frequente nella zona di Negombo che ha una notevole presenza di Cristiani. Le unioni tra Buddhisti e Hindu sono invece molto più rare a causa del ventennale conflitto interetnico fra Singalesi (buddhisti) e Tamil (hindu).
Nella casa c’era una quantità di bambini e parenti e vicini: la famiglia lì è qualcosa di più ampio che da noi.
Mentre mangiavamo l’onnipresente riso e curry, Herman Kumara mi diede una visione più ampia di ciò che stava effettivamente succedendo. In sostanza, secondo lui, ciò che avveniva a Sri Lanka sull’onda dello tsunami è che il potere politico e le maggiori forze imprenditoriali del paese cercavano di usare i fondi destinati alla ricostruzione per una serie di “grandi opere” quali nuove strade, ferrovie e nuovi porti grazie alle quali dar luogo ad una modernizzazione del paese che lo rendesse appetibile per investimenti sia stranieri che locali. In questo modo si sarebbero create le infrastrutture necessarie al cosiddetto sviluppo che – come normalmente avvenuto altrove - sarebbe andato essenzialmente a vantaggio degli investitori ed avrebbe sradicato una gran parte della popolazione dalla propria condizione sociale ed economica tradizionale.
Mi portò un esempio molto chiaro del processo che si andava configurando con la situazione dei pescatori: il governo ha messo il divieto “per motivi di sicurezza” lungo tutta la costa di costruire o ricostruire abitazioni entro 100 metri dalla spiaggia che è dove la maggioranza dei pescatori viveva, ma il permesso rimane tuttora solo per i grandi alberghi. L’intento sembrava quello di consegnare le splendide spiagge dell’isola ad uso esclusivo dell’imprenditoria del turismo di lusso, che è in gran parte di proprietà straniera (a Sri Lanka gli stranieri possono acquistare terreni e immobili mantenendone la proprietà al 100% - cosa quasi unica in questa parte del mondo – e per i grandi investimenti ci sono forti esenzioni fiscali e la possibilità di riesportare i profitti). Fino a quel momento, invece, il turismo era in gran parte a livello di imprenditoria familiare, di piccole pensioni e i cui guadagni si distribuivano tra un vasto numero di persone coinvolte a vario titolo nell’indotto dei servizi ai visitatori.
Parallelamente a questo le donazioni di barche ed attrezzature da pesca che arrivavano come aiuti per lo tsunami da parte di Unione Europea e FAO (cose che da noi non si usano più per la crescente scarsità di pesce) avrebbero reso, insieme alla costruzione di porti moderni, l’economia della pesca dell’isola sempre più dipendente dalle importazioni per i relativi pezzi di ricambio ed accessori. Ed avrebbero messo il pescato disponibile nelle reti di queste barche importate, più grandi ed efficienti e che richiedono un equipaggio più numeroso e specializzato il che è estraneo alla struttura sociale e alle capacità economiche e imprenditoriali delle famiglie di pescatori tradizionali srilankesi i cui membri si sarebbero presto trovati a scegliere tra un lavoro salariato e precario sui pescherecci ed un futuro di “nuovi cittadini” disoccupati nelle baraccopoli di Colombo.
E la cosa più paradossale - mi faceva notare Herman – è che tutto ciò sarebbe avvenuto “grazie” ai fondi che venivano donati non per “modernizzare” il paese, ma per ripristinare la vita delle vittime della catastrofe (in gran parte proprio questi piccoli pescatori) nelle condizioni in cui era prima: è per la morte di decine di migliaia di queste persone che i soldi sono stati dati, non per trasformare il profilo economico del paese!


D’altra parte era evidente quanto la posta in gioco fosse notevole e come già si prendessero misure adeguate a garantirsi il successo dell’operazione se, come riportava il Sunday Leader il 20 febbraio, in tutte le zone colpite l’autorità sui campi profughi era stata messa nelle mani dei militari e posta sotto legislazione speciale d’emergenza. Questa consentiva di arrestare a discrezione dei tutori dell’ordine chiunque “disturbi il funzionamento di servizi essenziali andando così contro l’interesse della sicurezza nazionale”. Secondo questa legge (n.12 del 4 gennaio 2004 – 9 giorni dopo la tragedia – ma resa pubblica solo il 25) la presidente poteva dichiarare un “servizio essenziale” qualsiasi servizio e gli atti considerati reato contro tali servizi comprendevano “lo sciopero, l’istigazione allo sciopero, la distribuzione di manifesti e volantini” e perfino la diffusione di “false informazioni tali da causare pubblico allarme o disordine”.

Quando salutai Herman Kumara gli augurai di cuore buona fortuna anche perché il giorno dopo ci sarebbero state in tutta l’isola una serie di manifestazioni di protesta organizzate dal loro sindacato per contrastare questa politica e richiedere che le risorse fossero usate per aiutare le vittime in ciò di cui hanno realmente bisogno per tornare alla loro vita normale”.

Da allora sono passati cinque anni ed a Sri Lanka sono tornato solo una volta brevemente nel 2007. Lungo la costa molto era stato ricostruito, sebbene parecchie famiglie vivessero ancora nei campi profughi. I piccoli imprenditori del turismo della costa hanno ricostruito in massa quanto possibile indebitandosi e senza tener conto della cosidetta “buffer zone” in cui era vietato edificare, così che il governo ha dovuto ridurla fino a 20-30 metri o accettarne implicitamente un’abolizione di fatto.
I pescatori della Nafso hanno continuato a portare avanti le loro battaglie, arrivando anche recentemente ad ottenere un importante successo con la messa al bando delle tecniche più invasive di pesca ( http://www.asianews.it/index.php?1=it&art=15870 ).
A me, dell’esperienza di quel periodo, è rimasto un certo scetticismo quanto alle grandi operazioni di “aiuti umanitari” ed alle organizzazioni di cooperazione che spesso costituiscono uno dei vari settori del business internazionale. Credo oggi che valga la pena di dare contributi (intendo da parte delle persone più che dei governi - che necessariamente, in situazioni di emergenza, si devono muovere su altre proporzioni) solo a progetti su piccolissima scala, possibilmente gestiti da persone di cui ci sia una conoscenza diretta e che siano alla portata di una verifica su ciò che viene effettivamente fatto. Progetti che abbiano a monte una visione complessiva e critica di ciò che significa “aiuto” e “sviluppo” e non si limitino a puntare sugli aspetti genericamente “umanitari” senza considerare gli effetti, l’integrabilità e la sostenibilità di questi nel contesto specifico del singolo paese.